Il creato davanti al cavalletto

Il creato davanti al cavalletto MOSTRA A ROMA SU «150 ANNI DI PITTURA AMERICANA DELLA NATURA» Il creato davanti al cavalletto NOSTRO SERVIZIO PARTICOLARE ROMA — In Vaticano, alla presenza del Papa, inaugurazione della mostra «Uno specchio della creazione», ovvero, come spiega il sottotitolo, meno enfaticamente, «150 anni di pittura americana della natura». Patrocinata dalla Friends of American Art in Religion, comprende una cinquantina di opere, dagli inizi dell'Ottocento al giorni nostri. Dislocate nel Braccio di Carlo Magno che collega il colonnato di sinistra alla Basilica di S. Pietro, costituiscono una eccellente conferma dei rischi che si corrono con le mostre a tema. Specie se l'intento è, per cosi dire, di vaga promozione religiosa e il curatore —che è John Baur, direttore del Whltney Museum di New York — forza i termini del discorso critico fino al punto di considerare Pollock, Rothko e Tobey, campioni di naturalismo. Certe confusioni non generano nulla di buono e sarebbe stato meglio limitarsi a una rigorosa, onesta panoramica storica. Magari con qualche quadro in più — per rimanere al nostro secolo, una sola opera di Marin o Feininger o Hopper o Ben Shahn sono francamente insufficienti — e dando per scontato che arte, se autentica, è sempre sinonimo di ricerca spirituale. Detto questo va però aggiunto subito che la mostra non è priva di meriti. Il principale è quello di consentire al visitatore italiano di gettare uno sguardo — potrà farlo fino al 23 novembre — sia pure parziale, su un fenomeno d'oltre Oceano che, proprio in questi giorni sta riempiendo le cronache artistiche. Vale a dire la clamorosa scoperta della cosiddetta «Scuola Americana» dell'Ottocento. Alcune recenti mostre nei musei degli Stati Uniti e la grande esposizione prevista per il 1983 al Louvre (nonché il vertiginoso crescere delle quotazioni) l'hanno portata, prepotentemente, alla ribalta. n poter prendere visione di alcuni esempi, peraltro senza il sospetto di quelle ingerenze del mercato che molti paventano, è senz'altro una buona cosa. Osservate de visu le opere, è probabile che il termine rivelazione, usato in questi ul- timi tempi da diversi studiosi statunitensi, risulti piuttosto esagerato. Specie a proposito degli Impressionisti (per non nominare i Primitivi i quali, come diceva Lionello Venturi, erano primitivi perché non sapevano dipingere) che, ad evidenza, non possono essere considerati dei sommi maestri. Patta eccezione per Twachtman che, oltre tutto, come dimostra il dipinto qui presentato, operò più che altro nell'area nabis predicata da Serusier all'Académie Julian a Parigi, essi, in sostanza, costituiscono una pattuglia di' epigoni, legati al verbo monettis.no che spirava con forza da Giverny. Valgano i loro significativi ritardi, fino al nostro secolo inoltrato, quando le Avanguardie storiche avevano, già da un pezzo, esploso le loro bombe. Semmai un discorso diverso meritano la Scuola dell'Hudson River e il gruppo dei Luministi. Spesso non cosi nettamente divisibili come certe partizioni vorrebbero far credere e sempre con robusti agganci con l'Europa, comunque con caratteristiche che si possono considerare più propriamente americane. Dovute alla grandiosità della natura locale a cui s'ispiravano e al clima culturale che si diffuse negli Stati Uniti, dopo la Dichiarazione d'Indipendenza e la creazione della nuova Repubblica. Guida alla scoperta di questi pittori potrebbe essere, infatti, un breviario della lette¬ ratura americana. I testi romanticamente castigati di Irving e quelli di Fenimore Cooper sui Pellirosse, i versi pieni di reverente amore per la natura di Bryant e quelli sublimi e trascendentali di Emerson e Thoreau, in realtà rappresentano la migliore chiave per interpretare quei paesaggi in•contaminati, aurorali, colmi di stupori. Basti ricordare, di Emerson, la luce dei boschi è un perpetuo mattino o, di Thoreau, cresci selvaggio secondo natura, come quelle felci e quei boschi cedui., per trovare una piena rispondenza negli olii che Cole e Dought, Gerry e Lane venivano dipingendo negli stessi anni. Non senza ragione nella famosa rivista The Dial, che fu il vessillo del trascendentalismo, tra i redattori, accanto ad Emerson, Alcott e la Fuller, troviamo il pittore-poeta Cranc. E non per niente Durand, altro iniziatore della pittura di paesaggio americano, in un quadro molto noto, purtroppo assente dalla mostra, rappresentò l'amico pittore Cole insieme al poeta Bryant, in piedi sull'orlo di un precipizio boscoso e l'intitolò Spiri tì affini Una comunanza che si può cogliere in innumerevoli particolari. Anche quell'unione di soffuso pulviscolo e, al tempo stesso, di maniacale precisione che caratterizza la letteratura trascendentale americana trova in questi dipinti perfette analogie. Un esempio per tutti, quello di Heade, forse il maggiore esponente del Luminismo. Dunque, in conclusione, un capitolo di pittura che è bene approfondire, però senza eccessivi, mistici entusiami. Bensì con la volontà di conoscere, con precisione, più a fondo, una pagina poco nota di storia dell'arte. La mostra offre, senza dubbio, questa occasione e vale la pena approfittarne. Francesco Vincitorio Edward Hicks: «11 regno della pace» (1830-35 circa)

Luoghi citati: Europa, New York, Parigi, Roma, Stati Uniti