Montale e il «Mondo» Gli scritti ritrovati

Montale e il «Mondo» Gli scritti ritrovati COLLOQUIO SU GOBETTI, L'EUROPA E ALTRO Montale e il «Mondo» Gli scritti ritrovati Eugenio Montale scrìverà due soli articoli sulle pagine del Mondo di Mario Pannunzio, nell'arco dei diciassette anni in cui si prolungherà la vita' dell'ormai leggendario settimanale, fra 1949 e 1966. Il primo non sarà neanche un vero e proprio articolo ma solo un frammento di discorso: destinato a comparire nei mesi della nascita e dei primi passi del periodico romano, il 19 giugno 1949. Quello scritto, inquadrato sotto la rubrica, distaccata e un po' enigmatica, «Il tempo e le idee», si intitolava «L'Europa e la sua ombra» e costituiva un brano, il più significativo, di un discorso accorato e anti-retorico sull'idea d'Europa che il poeta, già passato al giornalismo militante, aveva pronunciato a Berna, insieme con Eugenio d'Ors, Charles Morgan e Jules Romains, in un convegno dedicato, con cadenza tutt'altro che montaliana, alla «Missione spirituale dell'Europa»: missione che Montale contestava nel momento stesso in cui, con scarnificante realismo, definiva l'Europa «un sapore, sapore che ben conoscono i suoi esuli, più che una sintesi unitaria di caratteri». Ma di un altro Mondo, di pochi anni precedente, questa volta non a Roma ma a Firenze, Montale era stato protagonista, nei mesi della Liberazione. Un Mondo in chiave fiorentina e quindi dimessa, discreta, non urlata, non gridata: tanto che fatica ancora, pur coi 37 numeri della sua collezione e l'arco temporale occupato, fra aprile '45 e ottobre '46, a entrare nei libri di testo o in quella che è l'aneddotica letteraria. Ne parlo a lungo col mio vecchio collega e amico, nella sua casa spoglia e silenziosa di via Bigli, a Milano, in una mat tinata di fine maggio: rivolgendogli la richiesta, cui Montale acconsentirà, di riunire tutti gli articoli da lui scritti in quell'anno e mezzo, e mai raccolti né in volume né in antologie, in una plaquette della Nuova antologia, che uscirà appunto, inquadrata nel terzo fascicolo dell'anno, a fine settembre. «Era una rivista povera»: ti corda Montale, che ne fu uno dei redattori, insieme con Arturo Loria, Giorgio Zampa, Luigi Scaravelli, direttore animatore di tutto Alessandro Bonsan ti, in una stanza del Ga binetto Vieusseux di Palazzo Strozzi, lo stesso Gabinetto che egli, Montale, aveva dovu to abbandonare nel 1938 per non aver accettato la tessera fascista. «Non credere, incalza Montale, alla tiratura di venti mila copie di cui favoleggiano i superstiti. Può essere che al primo n'unterò la tiratura abbia superato le diecimila copie; ma la realtà è che la diffusione non andò mai oltre le tremila copie, fra abbonamenti e vendite, e alla fine era già molto meno...». ★ ★ Formato appena più grande di un moderno tabloid; sedici pagine a quattro colonne, e solo la prima a tre; quindici lire a copia; periodicità quindicinale, quasi a confermare le prudenze e timidezze dell'editoria fiorentina (nacque il 7 aprile, prima della liberazione deNord). Stampatore, non editore, il Vallecchi, allora sotto le maglie dell'epurazione, e quindi uso di caratteri e inquadratche richiamavano largamente La Voce e Lacerba, che rievocavano i tempi eroici delle avanguardie fiorentine del primo quindicennio del secolo. Ma nessun avanguardismonessuno spiraglio all'irrazionalismo o alla stravaganza, nessuna voglia, come trent'anni prima, di «epater les bourgeois»Al contrario una rivista classica, di classica ispirazione e vibrazione politica, che scavalcava il Novecento per dare la mano alle riviste illuministe ed enciclopediste del fondatordel «Gabinetto» all'ombra dequale era nata, appunto Giovan Pietro Vieusseux: una rivista fondata sull'aperta rivendicazione dei valori della ragione della libertà, che poteva portare anzi per sottotitolo, quascon alterezza risorgimentalecon laica fedeltà, la stessa'insegna dell'antica Antologia dell'impresario di Oneglia, «Lettere scienze arti musica». Eun'impostazione politicamenttutta di terza forza (come sarpoi quella del Mondo di Pannunzio), tutta tesa a ricercarle possibilità di confluenza e dcollaborazione fra giustizia libertà, fra democrazia e liberalismo e socialismo, non a caso modellata sullo schema deMondo di Giovanni Amendol di cui la testata fiorentina sarà la prima e diretta figlia, nel clima della liberazione. Montale, in quel periodo, militerà nel partito d'azione e avrà anche un incarico nel comitato della cultura e dell'arte del Cln di Ragghiami. Ma l'«azionismo» del Mondo sarà peculiare, caratterizzato da un timbro tutto fiorentino, che lo differenzierà dal più ampio impegnato respiro nazionale che contemporaneamente Piero Calamandrei darà alla rivista di battaglia politica e civile che intitolerà alla memoria dei ponti distrutti dalla furia nazista, con quel simbolo di collegamento, di sintesi fra civiltà diverse, Il ponte appunto. Un azionismo non esclusivo, come del resto era quello, ripiegato in un suo profondo pessimismo, abbastanza lontano dall'azione politica, di Eugenio Montale. *★ E mai indulgenze al populismo. U leitmotiv di questi sedici scritti di Montale, che si possono considerare quasi «inediti», rispetto al mutamento delle generazioni e dei gusti, è la fedeltà a una cultura italiana strettamente legata all'Europa, ad una cultura che non ha paura di richiamare i suoi legami con la civiltà europea in quanto civiltà liberale-borghese, più o meno la stessa civiltà che negli stessi mesi ispirerà una testata strettamente apparentata al Mondo fiorentino, la romana Nuova Europa di Salvatorelli e De Ruggiero e Vinciguerra. Quando recensisce II quartiere di Pratolini, uno scrittore cui Montale era stato profondamente legato, anche per l'è sperienza del Campo di Marte, non esita a sottolineare una nota di motivata riserva già nel titolo, Un romanzo populista. «Non si è popolo, caro Vasco, solo per il fatto di aver mangiato anni ed anni il lampredotto sotto l'arco del mercatino di San Piem. E tanto più in una città che si chiama Firenze». Ma ancor più evidente quel filone di polemica, sottile e sempre argomentata, nel commento che gli ispira, a fine maggio '45, un pamphlet sferzante e gobettianamente ispirato che Corrado Alvaro pub blica sotto il titolo L'Italia rinunzia?. Con tutto il carico di delusioni e di frustrazioni meridionali che ha alimentato l'intera sua opera, Alvaro non ha fiducia nell'evoluzione democratico-riformatrice della nuova Italia, teme che le forze privilegiate e conservatrici blocchino ogni anelito di emancipazione, non crede più nell'apporto della borghesia, che vede tutta o quasi identificata nel fascismo, punta esclusivamente sul «popolo», sulle virtù rigeneratrici del popolo che egli sente con qualche scheggia della Rivoluzione liberale e con qualche congiunta influenza di Gramsci, ma fuori di ogni schema rigido di socialismo marxista. Montale ribatte: «Alvaro so stiene che il popolo è più sano e che il fascismo è stato sostenuto quasi unicamente da forze rea zionarie borghesi...». Ma... «Ma venivano dal popolo Gobetti Rosselli, cioè le figure più italianamente ispirate della lunga vigilia antifascista? Erano composte di borghesi le folle che si recavano, in stato di perpetuo delirio coatto, dinanzi allo storico balcone di Palazzo Venezia?». Quei nomi, Gobetti e Ros selli, non sono citati a caso; l'antifascismo, di sempre, di Montale si muove in quella dimensione. Quando recensirà le ricostruite Memorie autobiografiche di Carlo Rosselli, Montale scriverà sul Mondo che l'opera ha «il tono dei libri migliori del nostro risorgimen to»: forse conseguenza del fatto che «l'autore non ha apparse nuto ufficialmente alla lettera tura». E Gobetti? Sarà il suo primo editore, l'editore degli Ossi di seppia agli inizi del '25. «Sono stato apposta a salutarlo alla stazione di Genova quando partì per la Francia, mi ricorda nel colloquio di Milano; viaggiava in terza classe, ci siamo anche abbracciati. Sono stato l'ultimo amico che ha visto in terra ita liana». «Era, aggiunge, un Lo hengrin isolato, una figura eroi ca, un leader senza successo, che aveva però le stigmate del genio». La voce di Montale si appanna: «Era il compagno di strada eguale a noi, migliore di noi, l'uomo che noi ci ostiniamo ancora a cercare nella parte più profonda di noi stessi». Giovanni Spadolini