Autocritica di un terrorista

Autocritica di un terrorista PARLA IL TEDESCO MAHLER, TEORICO DELLA BANDA BAADER Autocritica di un terrorista «Cercavamo contatti con Tira, i baschi, soprattutto con gli italiani», ammette l'avvocato berlinese, uno dei fondatori della Frazione armata rossa - «I risultati della nostra politica omicida: impopolarità, psicosi della paura, rafforzamento di chi combattevamo» - La morte dei tre terroristi in carcere a Stammhejm: «Se vi è stato delitto, il governo non c'entra» L'avvocato berlinese Horst Mahler, che negli Anni Sessanta fu difensore del movimento studentesco Sds di Rucìy Dutschke, è stato uno dei fondatori del gruppo terroristico tedesco Frazione armata rossa. Nel 1973, poco prima di essere condannato a 12 anni per furto aggravato, aggressione a mano armata e associazione criminale, dichiarò: «Con t lacchè del capitalismo non si parla, si spara». Ora Mahler non spara più. Del resto, non ha mai sparato. E nel dicembre del '79, quando era in libertà vigilata, ebbe un colloquio con il ministro dell'Interno, Baum. che fece scalpore in Germania. In quest'intervista spiega le motivazioni profonde dei terroristi tedeschi, i motivi del suo ripensamento e le componenti della società del suo Paese, limpida e misteriosa insieme. E' vero che una delle motivazioni dei terroristi tedeschi l'odio per se stessi, il bisogno incontenibile di combattere il tedesco che portano in sé? — Non parlerei di odio per se stessi, ma piuttosto di vergogna. Ma lei, come tutti i membri della Frazione armata rossa, era ragazzo durante la guerra. Perché portate il fardello di una responsabilità che non è vostra? Certamente, come individuo non ero responsabile. Ma l'hitlerismo e le cose spaventose che ne derivarono furono provocati, appoggiati, direi ottenuti dalla volontà di un intero popolo. E io faccio parte di questo popolo, quindi non posso restare indifferente. Credo che tutti i membri della Frazione armata rossa abbiano provato e provino questa vergogna, che è un elemento determinante del loro impegno. Ma, come lei sa, i motivi di un impegno sono molti. Oltre alla vergogna, c'è un certo modo di trattare e non trattare il passato re¬ cente. C'è una sensibilità propria, un modo personale di vedere la politica. E c'è questa cosa evidente, decisiva nel nostro impegno: lo Stato in quanto tale ha commesso i peggiori crimini, ne commette tutti i giorni, non solo verso il nostro popolo, ma verso tutti gli altri popoli. E' una cosa molto difficile da sopportare. I suoi genitori erano nazisti? — Sì, ma non provo odio per loro. Lo dico ancora una volta, provo vergogna. E da questa vergogna sono nati in molti, è vero, l'odio per gli altri e l'odio per se stessi. Francamente la storia della Frazione armata rossa ha un che di traumatizzante. Me lo ha confermato lei: i suoi membri sentono il peso del genocidio, che è in loro e nella storia del loro popolo, ma più di 30 anni dopo i loro genitori questi giovani si mettono anch'essi a uccidere ebrei, spinti, come ha detto lei, dal rimorso del primo massacro. E così si alleano ai palestinesi. Come lo spiega? — Abbiamo difeso il popolo palestinese anche perché gli ebrei' non l'avrebbero espulso, né gli avrebbero preso le terre, se noi non avessimo fatto agli ebrei quello che abbiamo fatto. Il massacro L'idea sionista risale a prima del Terzo Reich... — Le persecuzioni del Terso Reich sono il risultato di lunghe manovre politiche contro gli ebrei, che facevano parte del nostro popolo. Al di là dell'integrazione e della piena cittadinama, gli ebrei erano riusciti a conservare l'identità di un popolo. I tedeschi dovevano assolutamente risarcirli, ma non facilitando la creazione di uno Stato destinato per definizione ad una politica di violenza. Bisognava creare le condizioni politiche, sociali e culturali perché il martirio a a o l i i a l o à e i e e è o . ebraico non significasse la spoliazione dei palestinesi. Il fatto che la terra di Palestina fosse sotto il controllo israeliano non poteva lasciarci indifferenti, proprio per il nostro passato. Quale fu la sua reazione al massacro delle Olimpiadi di Monaco? — A quell'epoca ho giustificato questa azione davanti al tribunale. Ero accusato di aggressione a mano armata, e ho detto in pubblico che Monaco aveva un significato particolare. Oggi capisco: in quel processo si poneva la questione della nostra identità, per la prima volta. C'era un'azione politica globale, non si poteva non prendere una posizione. Dentro di me criticavo quell'azione, ma c'era il processo. La mia reazione poteva soltanto essere unilaterale. E non era scosso dai fatti di Monaco? — Certo che lo ero. Era questo il problema. Però, lo ripeto, la nostra identità era minacciata, e reagivamo giustificando la strage. Questo fu all'origine di enormi problemi, insinuò il dubbio. Oggi, quando vedo le loro reazioni nella clandestinità, quando vedo le loro violenze intravedo i dubbi che hanno alle spalle. Il fatto che continuino a propugnare l'idea della lotta armata, che ignorino così le conseguenze politiche delle loro azioni, che continuino a ignorarle, è soltanto l'espressione del loro dubbio. Facciamo un altro esempio: il rapimento e la morte di Schleyer. — La vicenda Schleyer è strettamente legata a quella di Mogadiscio. Da una parte dei turisti presi in ostaggio, dall'altra un uomo torturato per sei settimane, poi ucciso. Che cosa ci passava per la testa? Come potevamo spiegare simili fatti con le parole del vocabolario politico? La risposta non si è ancora trovata... Ma all'improvviso per me è diventato lampante: una certa morale politica può essere rovesciata come un guanto. Si può adottare molto in fretta un comportamento fedelmente ricalcato su quello delle persone che combattiamo. E si giunge a fare noi stessi una politica omicida, repressiva, basata sul disprezzo per l'uomo. Che cosa diceva la Frazione armata rossa? Che nessun individuo può essere considerato responsabile di un processo storico. Era quindi falso dire che Schleyer incarnava lo Stato capitalista. Era disgustoso considerarlo responsabile di un certo ordinamento politico, di un certo regime. Si dimenticava che apparteneva alla razza umana. Dunque a quell'epoca ha incominciato a rivedere le sue posizioni... — No. Un processo di revisione non si esaurisce così, in ventiquattr'ore. Non si può dire: il tal giorno, alla tal ora, alla fine della tal discussione ho cambiato idea. Ma le ripeterò quanto ho detto al ministro Baum: l'isolamento in prigione è una cosa positiva, poiché ti costringe a riflettere da solo, senza il peso schiacciante della società che sta all'esterno. In secondo luogo, bisogna risalire agli anni 1969-1970, all'epoca della guerra del Vietnam. La nostra idea base era che lo Stato, il quale rappresenta il dominio del capitale, dovesse essere distrutto, e credevamo che la nostra azione dovesse essere esemplare. Abbiamo attinto a Marx e a Lenin le ragioni della nostra convinzione. Eravamo convinti che le nostre azioni avrebbero avuto un'eco favorevole, pensavamo che la nostra resistenza allo Stato sarebbe stata'seguita, che avrebbe portato a una reazione concreta, popolare. Il risultato lo conosce, e lo si è visto durante i processi ai nostri compagni della Frazione armata rossa. Era diametralmente opposto a quello che speravamo di ottenere: impopolarità, psicosi della paura, potenziamento delle forze che combattevamo, cioè il Bnd (servizio segreto), l'estrema destra, Franz Joseph Strauss, e cosi via. Lei sa che cosa è realmente avvenuto a Stammheim? I suoi amici Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Karl Raspe si sono davvero uccisi? — Io non c'ero. Ma se c'è stato un delitto, a chi è servito? Certo non al governo federale, certo non a Helmut Schmidt, che avevano appena avuto il successo dì Mogadiscio. Non era proprio il momento giusto per impegolarsi in una simile storia; la morte di Baader, Ensslin e Raspe rovinava tutto. E non credo alla vendetta pura e semplice, non sta in piedi. Inoltre la Frazione armata rossa è stata al contrario un elemento tutt'altro che trascurabile nel rafforzamento del regime e delle strutture di questo Paese. Se vi è stato un delitto, il governo non c'entra. Penserei piuttosto al Bnd, a una precisa frazione del Bnd, per provocare la sinistra nei suoi punti deboli, per spingerla a gesti disperati, folli. Lei conosce certo la tesi, diffusa in Europa, secondo la quale esisterebbe un unico movimento terroristico mondiale. Tedeschi, irlandesi, baschi, corsi, bretoni sarebbero tutti manovrati da Gheddafi. Che ne pensa? — A destra come a sinistra — mi perdoni se uso questi vecchi, strani concetti — c'è un modo di giudicare qualsiasi politica ponendo sistematicamente alla base del ragionamento l'idea di un complotto. Il fatto più insignificante deve per forza essere il riflesso, la conseguenza di un complotto globale, planetario. I nazisti, per parlare soltanto di loro, facevano la stessa cosa, sostenendo che tutte le disgrazie della Germania derivavano da una cospirazione giudaica. Dunque Gheddafi non c'entra con l'ondata terroristica in Europa. — Non ho mai detto questo, anzi, è quasi sicuro che alcuni uomini al potere, fra i quali Gheddafi — ma creda, non è il solo — tentino di trarre vantaggi da certe situazioni. Nessuno può negarlo. E'chiaro che il terrorismo è uno degli elementi della loro politica, e che cercano di servirsene con tutti i mezzi. Ma né Gheddafi, né altri capi di Stato sono all'origine dell'azione di questo o di quel gruppo Ciò che sta alla base, ciò che più conta è la singolarità, sono le concezioni particolari del gruppo, che si tratti di noi, dei baschi o dei corsi. Conta soprattutto la causa, l'originalità della causa. Quando un gruppo capisce che Gheddafi o un altro lo appoggia, per esempio mettendogli a disposizione i suoi campi d'addestramento, allora s'interroga. Si discute, si valuta il prò e il contro. Diffido anch'io della teoria del complotto. Ma ogni volta, che si va a Berlino Est, a 800 metri di qui, nella hall dell'Hotel Unter den Linden si incontra lo stato maggiore palestinese. — E questo che cosa dimostra? Aiuti dall'Est Nulla. Ma non si può non pensare a una gigantesca manipolazione del vostro romanticismo da parte della Ddr. e quindi dell'Urss, per destabilizzare l'Europa occidentale. — Si sono fatte molte supposizioni, molte speculazioni su questo argomento. Non ho idee in proposito. Posso solo attenermi ai fatti. Innanzitutto so che la Ddr e Mosca nel 1967 rimasero sorprese dalla dimensione che il movimento studentesco a Berlino Ovest andava assumendo. Non l'avevano previsto. E questo movimento non era incasellato in alcuna delle loro categorie, non ci capivano niente. Sono rimaste ancor più disorientate quando sono comparsi i gruppi terroristici, qui come negli Usa, in Italia, in Francia. A rigore erano in grado di capire un'evoluzione anomala all'interno del movimento opeiaio, ma nei loro schemi non era previsto il capitolo del terrorismo individualista. E che hanno fatto? Hanno incominciato a denunciarci, poi hanno aspettato, chiedendosi come diavolo potessero sfruttare a loro vantaggio la nuova situazione. All'inizio erano cosi poco sicuri di se stessi che, pur condannandoci, ci hanno fatto alcune agevolazioni. Vi lasciavano passare all'Est? — Ci facevano passare at¬ traverso la Ddr da Berlino Ovest alla Repubblica Federale. Ma voglio dire che probabilmente hanno pensato di servirsi di noi come mezzo di destabilizzazione. Avete avuto contatti con gli altri movimenti terroristici, i baschi, i corsi, gli irlandesi? — Sono stato arrestato prima che si prendessero contatti, se mai ne furono presi. Non ne so nulla. Ma posso dire che al momento del mio arresto c'era la tendenza a cercare contatti, con l'Ira, i baschi, e soprattutto con gli italiani. La fase successiva del nostro programma era il rilancio della Terza Internazionale. La Frazione armata rossa esiste ancora? — Francamente, non lo so. Come lei, leggo i giornali, e cerco di leggere fra le righe. Ma una cosa è sicura: dopo Mogadiscio, nel 1977, dopo quella tremenda sconfitta per il gruppo, la Frazione armata rossa ha subito un terribile trauma. Ha rinunciato alla violenza? — Oggi, in Germania, non diffondo più l'ideologia della violenza. La violenza politica è assurda nelle condizioni in cui viviamo. Ma per principio non posso condannare la violenza. Non possono condannarla i francesi, perché che cosa dimostra la loro rivoluzione? Dimostra che la sopravvivenza materiale non è il bene supremo, che l'allineamento acritico a un regime repressivo non è l'espressione della dignità umana, che lo scopo ultimo non è la sopravvivenza di una nazione, ma la libertà. E che quando l'oppressione diventa insopportabile, è legittimo che il popolo ricorra alla violenza. «Riflettete» Lei parla di libertà, ma parla anche di socialismo. Da Phnom Penh a Berlino Est, passando per Praga e Mosca, non si è mai visto un socialismo compatibile con la libertà. — Nella concezione stessa del socialismo la libertà è assente. Il socialismo non è libertà, è nostalgia della libertà. Il socialismo ha fatto della libertà un oggetto del suo pensiero, dei suoi rimpianti, delle sue speranze, ma non l'ha mai incorporata. Questa è la sua grande debolezza. Il socialismo non implica alcuna idea chiara di che cosa sia la libertà, di che cosa la libertà significhi; ignora che cosa sia l'essere umano in quanto essere libero. Sarebbe folle accettare qui da noi strutture che neghino la libertà individuate. Però laggiù in Cina, dove è stata vinta una certa miseria materiale, queste limitazioni sono forse necessarie. E sarebbe forse folle anche tornare alla libertà di coscienza e di religione. Va a sapere... Non lo so. Più l'ascolto, più penso che un movimento come la Frazione armata rossa è concepibile soltanto in Germania. Forse per via del romanticismo, ma non soltanto. C'è qualcosa d'altro. Che cosa? — Credo che uno degli elementi basilari del carattere tedesco sia quello che noi chiamiamo Gemutlischkeit, il bisogno forsennato di trovarsi a proprio agio costi quel che costi, di vivere in armonia totale con le idee fondamentali. E questo bisogno di essere rassicurati dall'ideologia può assumere aspetti molto crudeli. Noi dobbiamo andare al nocciolo, e subito. E bisogna che l'altro, il nemico, vada sul rogo, in modo che noi ci salviamo l'anima. Questo modo sotterraneo di rifarsi sempre a ciò che è fondamentale per spiegare un comportamento pratico sfocia in quello che si chiama fanatismo. Ciò che colpisce è l'aspetto suicida della Frazione armata rossa. E qui torniamo al romanticismo... — Il suicidio è l'aspetto esteriore. Ma alla base c'è altro, ed è importante. Il rigore morale, direi, che ha avuto un ruolo enorme nel nostro movimento. Per noi, era impensabile non andare sino in fondo, visto che rifiutavamo alcune condizioni della società. O ci si uccide, o si sconvolge quest'ordine che ci viene imposto. E qui, effettivamen- ' te, in questo comportamento rispunta il romanticismo. Molti suoi compagni vivono ancora nella clandestinità. Ha un messaggio per loro? — / messaggi non servono sono inoperanti. Io esprimo pubblicamente alcune riflessioni, e chiedo che altri riflettano. La cosa importante è che questa riflessione si basi sul concetto di popolo. Una riflessione che deve essere legata all'esperienza della clandestinità, ma non deve avere come base soltanto la clandestinità. P. Ganier-Raymond Copyright 1 * Monde e per l'Italia La Stampa Horst Mahler