L'impero di Ciro sul petrolio di Fabio Galvano

L'impero di Ciro sul petrolio LA FIGURA DELL'EX SCIA': DISPOTICO, PROGRESSISTA, CORROTTO L'impero di Ciro sul petrolio Reza Pahlavi aveva dichiarato di voler fare dell'Iran la quinta potenza mondiale - Ma alle ricchezze petrolifere e agli ambiziosi progetti di modernizzazione si accompagnavano una miseria diffusa tra il popolo e un regime duro e repressivo - Dalla sfarzosa festa a Persepolis per celebrare i 2500 anni della dinastia persiana alle torture della Savak - I tre matrimoni Lo Scià è morto due volte, a prima fu il 16 gennaio 1979, quando fuggi da Teheran sotto l'incalzare della rivolta popolare, con Khomeini che da Parigi attendeva l'ora del trionfale ritorno in patria, della vittoria rivoluzionaria. Quel giorno Reza Pahlavi aveva capito che era una partenza per l'esilio, e non per le «vacanze» che i suoi portavoce si sforzavano di sottolineare. Prese egli stesso i comandi dell'aereo, sorvolò per l'ultima volta la sua capitale, scompari mentre pochi fedeli lo piangevano e la folla dei «senza scarpe» esultava per la sconfitta del tiranno. Quel giorno finiva l'Impero, e cominciava la fine dell'Imperatore, sballottato da un Paese all'altro, fra minacce e pericoli, incondizioni di salute che rapidamente si deterioravano, con un Iran che esplodeva alle sue spalle provocando una crisi internazionale che forse neppure lui aveva saputo prevedere. Non è facile, oggi, parlare di Reza Pahlavi. In 37 anni di regno al tempo stesso illuminato e crudele, progressista e corrotto, ha lasciato un'impronta che qualcuno, soprattutto in Occidente, rimpiange, ma che l'Iran d'oggi vuole cancellare spietatamente, con un odio che non appare smussato neppure dal mistero della morte. In 37 anni un regno di contadini e di pastori ha fatto un balzo di secoli, e con le ricchezze del petrolio si è affacciato alla soglia della civiltà industriale. Ma non vi si è adattato, non ha assorbito quei cambiamenti con naturalezza; soprattutto ha visto le ingenti ricchezze concentrarsi nelle mani del «clan» Pahlavi e dell'oligarchia imperiale, mentre milioni di iraniani — i «senza scarpe», appunto — continuavano a soffrire la miseria. In quei 37 anni duri e autoritari i fedeli dello Scià e la sua polizia segreta hanno torturato e ucciso migliaia di persone. «La democrazia non la voglio, non so che farmene», ammetteva candidamente Reza Pahlavi negli anni del potere più assoluto. «Fucilare certa gente è giusto e necessario», sosteneva. Si calcola che lungo il suo regno ci sia stato un morto ogni 48 minuti, un marchio d'infamia che spiega forse perché la folla, nell'autunno di due anni fa, fosse disposta ad affrontare disarmata i carri armati e le mitragliatrici, a farsi uccidere, pur di cacciarlo. Entro vent'anni, dichiarava prima che l'Iran si rovesciasse su di lui, il Paese sarebbe diventato la quinta potenza del mondo. Ma non basta la ricchezza del petrolio, soprattutto se accompagnata dalla tirannia, dalla tortura, dalla corruzione, da una diffusa miseria che ingolfava isole di ricchezza, a creare i miracoli economici. E il castello dello Scià, fondato su un assolutismo regressiva fra i più duri, è crollato lasciando un. Paese sconvolto e in rovina, Re dei re, luce degli ani, luce della giustizia, difensore degli indifesi, lo Scià era nato il 26 ottobre 1919, figlio di Reza Khan, un modesto sottufficiale della cavalleria cosacca, uomo d'azione ma analfabeta, che in quattro matrimoni avrebbe avuto undici figli. Lo Scià aveva tre sorelle: Ashraf, soprannominata «la principessa nera», considerata per anni l'eminenza grigia del Trono del Pavone, Fatima, Shams (che gli era gemella); e un fratello minore. All Reza, morto nel 1954 in un incidente aviatorio. La sua vita imperiale ebbe inizio che aveva appena sei anni, per l'esattezza il 13 dicembre 1925, quando suo padre capeggiò là ribellione contro i turchi e rovesciò lo Scià Ahmad. Del suo predecessore Reza Khan non aveva la statura morale, neppure l'intelligenza, men che meno una cultura -di stampo occidentale; ma aveva il temperamento dell'autocrate, e riuscì cosi a conservare le redini del neonato regno nonostante una serie di sollevazioni interne. Non abile sotto il profilo diplomatico, fu costretto ad abdicare il 16 settembre 1941: le sue simpatie per l'Asse mal si adattavano all'occupazione anglo-russo-americana. Andò in esilio nel Sud Africa e mori tre anni dopo, nel 1944, a Johannesburg. Erede dell'Iran quando non aveva ancora compiuto 22 anni, Reza Pahlavi dovette accontentarsi di essere per alcuni anni nulla più che un personaggio coreografico, una sorta di «re da operetta», facile pedina nelle mani degli alleati che consideravano l'Iran nulla più che un nodo strategico per le loro attività economiche, politiche e militari. Ma, a differenza del padre, Reza Pahlavi aveva ricevuto una solida cultura: prima all'accademia militare di Teheran, poi in Svizzera. Avviò, sotto la guida abile della sorella Ashraf, il lento processo di emancipazione del Paese, promuovendo riforme sociali, cercando di distribuire le terre ai contadini, sempre avversato da un Parlamento che era espressione delle classi privilegiate del Paese, nella cui rete alla fine anch'egli sarebbe caduto. Sopravvisse, nel 1949, a un attentato che lo sfigurò (un proiettile gli penetrò nel naso e uscì da uno zigomo); e capì, in quell'occasione, che si stavano avvicinando tempi difficili. Nel marzo '51, sull'onda della campagna avviata dai nazionalisti in favore della nazionalizzazione dei pozzi petroliferi, il suo primo ministro Ali Razmara fu ucciso. Il successore, Hussein Ala, resistette due mesi: di fronte alla situazione che si deteriorava e gli sfuggiva dalle mani, Reza Palila- vi non ebbe altra scelta che la nomina a primo ministro del vecchio Mohammed Mossadeq, appartenente all'ala più intransigente del partito nazionalista. E Mossadeq, nel giro di tre giorni, nazionalizzò la società petrolifera Anglo-Iranian, che aveva esattamente mezzo secolo di vita. Lo Scià era contrario a questa decisione: riteneva che fosse soprattutto frutto della xenofobia di Mossadeq, che non rispondesse alle necessità economiche del Paese (si trattava di non ricevere più le royalties, di dover anzi pagare una somma da capogiro per l'esproprio degli impianti). Il conflitto fra i due era inevitabile, ma 10 Scià temporeggiò per due anni: nell'agosto 1953 si ebbe lo scontro aperto, Mossadeq fu dichiarato decaduto e 11 governo affidato al generale Zahedi. Ne seguirono tumulti, quasi una rivoluzione: all'alba del 16 agosto lo Scià partiva per Baghdad e proseguiva per Roma, accompagnato dalla seconda moglie, Soraya. Pareva la fine, l'esilio, ma tre giorni dopo il generale Zahedi rovesciava la situazione con un colpo di Stato. Il 20 agosto Mossadeq era arrestato, lo Scià tornava in patria. Sciolse il Parlamento, sospese i diritti costituzionali, cominciò a dirigere il Paese col pugno di ferro che tutti gli avrebbero poi rimproverato. Il brevissimo esilio romano aveva fatto però nascere un nuovo «personaggio». L'immagine del monarca triste con la bellissima moglie dagli occhi verdi aveva affascinato un po' tutti; la presse du coeur l'aveva adottato e non lo avrebbe più lasciato, i rotocalchi si erano insomma impadroniti di lui. Era il preambolo di un altro dramma, politico solo di riflesso, di cui lo Scià sarebbe stato protagonista negli anni seguenti. Morto suo fratello Ali Reza, nel 1954, il Trono del Pavone restava infatti senza un erede. La Costituzione iraniana chiedeva un maschio: la prima moglie di Reza Pahlavi, la bellissima Fawzia, sorella di Faruk, gli aveva dato soltanto una figlia, Shannaz; e Soraya, dopo il divorzio da Fawzia, non gli aveva dato neppure quella. Furono anni dettati, più che dagli affari di Stato, dalle visite mediche. Ed ecco la presse du coeur scatenarsi sul tormento dello Scià nel dover lasciare anche Soraya quando sarà certo che non riuscirà mai a partorire (ebbe due gravidanze non portate a termine), sulle malinconie della regina e sullo strazio del re, costretto al divorzio dalla ragion di Stato. Così, nel marzo 1958, anche Soraya scompariva dalla scena, carica d'oro e di velleità cinematografiche. E subito riprendeva la caccia all'erede maschio: il 21 dicembre 1959 Reza Pahlavi sposava Farah Diba, studentessa d'architettura a Parigi, esponente della ricca borghesia iraniana. Un anno dopo nasceva l'atteso maschio, Reza Ciro, che oggi ha vent'anni. Sarebbe diventata anche questa una famiglia numerosa: una femmina, Farah Naz, nel "63, l'altro maschio All Reza nel '66, l'ultima nata, Leila, nel 1970. Nel 1967 ci fu il varo di una riforma costituzionale, che affidava a Farah Diba la reggenza in caso di impedimento del sovrano, e fino alla maggiore età di Reza Ciro: la decisione sembrò confermare le voci di una grave malattia del monarca, la malattia che c'era e che ora l'ha distrutto. E quello stesso anno, il 27 ottobre, ci fu la fastosa cerimonia dell'incoronazione. Per l'occasione uscirono, dalla Banca Melli di Teheran, i tesori dello Scià: il Trono del Pavone, ricoperto da oltre 20 mila gemme; l'Oceano di Luce, uno splendido diamante di 186 carati; la corona imperiale costellata da 4 mila diamanti; la Spada delle Conquiste con duemila gioielli; in tutto un tesoro d'oro e di pietre preziose valutato ad almeno duemila miliardi di lire, quel tesoro che lo Scià non fu mai in grado di portarsi nell'ultimo esilio (se ne rammaricò nelle parole finali del suo ultimo libro. Risposta alla Storia). Con due grandi palazzi a Saadaban per l'estate e a Niaravan per l'inverno, con¬ tinuò la sua esistenza di lusso e cattivo gusto, culminata nello spreco di 60 miliardi per le celebrazioni a Persepoli, nel 1971, per il 25" centenario della fondazione dell'Impero persiano: il fior fiore del sangue blu e della nobiltà di censo fu invitato da tutto il mondo; ma nessuno, forse, si accorse che dietro quelle fastose tende nel deserto, dietro quella pacchiana ostentazione di sfarzo e di ricchezza, c'erano sempre i «senza scarpe», i diseredati, una popolazione che dal petrolio non aveva avuto giovamento, che male sopportava le «modernizzazioni» volute dallo Scià, e che in silenzio tramava la sua caduta. La miseria dell'Iran, quello vero e non quello che si rifletteva nella corte, gridava vendetta; ma lo Scià non se ne accorgeva, o faceva finta di ignorarlo, mentre prudentemente continuava ad accumulare capitali all'estero. La Savak, la polizia segreta creata nel 1957, arrestava, torturava, uccideva; Amnesty International e altre organizzazioni di tutto il mondo denunciavano le atrocità commesse..Ma nessuno, fuori dell'Iran, parve volerci fare molto caso, tale era la dipendenza dal petrolio iraniano. Un silenzio di comodo, forse, su fatti che lo stesso Reza Pahlavi più volte dichiarò di non conoscere, addossandone — forse in buona fede — la responsabilità a subalterni che prendevano un po' troppo alla lettera 11 vangelo della repressione. Mossadeq, per lui, era lontano nel tempo e nei ricordi; Khomeini e 1 suol collaboratori gli parevano «quattro vecchi imbecilli, incapaci di gestire una drogheria». Perseguiva il sogno di un Iran moderno, di una potenza trainante nel mondo industriale, un sogno da realizzare a qualunque prezzo. Ma 11 popolo, che l'aveva anche amato, non era più con lui. L'esilio, protetto dalla Guardia Imperiale, era forse già cominciato a Teheran, prima di quel 16 gennaio 1979 che segnò la fine dell'Impero, la vera morte dello Scià. Fabio Galvano Una scena di sfarzo imperiale: lo scià e la terza moglie Farah Diba dopo l'incoronazione salutano la folla dalla carrozza