Adesso in America c'è già chi vede «un mondo pieno delle nostre auto»

Adesso in America c'è già chi vede «un mondo pieno delle nostre auto» Governo ed industrie si sono alleati per superare la crisi Adesso in America c'è già chi vede «un mondo pieno delle nostre auto» Per esempio il nuovo ministro dei Trasporti, Goldschmidt - Il grande avversario rimane sempre il Giappone - Qualcuno, per contrastarne la penetrazione, propone di stipulare accordi con le Case europee DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE DETROIT — Dall'inizio dell'anno, le vendite mensili delle auto straniere negli Stati Uniti superano il miliardo di dollari. Mary Jean Liberman, una ex modella divenuta concessionaria della Chrysler, ne ha quantificato l'effetto sull'industria americana: una perdita di 57 mila posti di lavoro al mese, tra case automobilistiche e ditte fornitrici. Il presidente della Ford, Philip Caldwell, è andato oltre: l'importazione di vetture dal Giappone, ha detto, causerà nell'80 un deficit spaventoso nella bilancia commerciale del Paese, circa 13 miliardi di dollari, facendone la seconda voce negativa dopo quella del petrolio. Sino a poche settimane or sono, Detroit si sentiva isolata di fronte alla crisi. Il governo oscillava da una politica di penalizzazione nei suoi confronti a una di «benign neglect» o negligenza benevola. Per dirla con lo stesso Caldwell, «la capitale dell'auto americana e Washington tenevano un dialogo tra sordi». Mentre Detroit denunciava l'invasione giapponese e chiedeva un taglio delle importazioni, il ministero dei Trasporti proponeva disegni legge contro l'inquinamento e predicava la riduzione dei consumi di benzina. I sindacati, una volta tanto schierati al fianco delle imprese, si sentivano impotenti, «succhiati dal vortice della recessione». Oggi, dopo la decisione di Detroit di rinnovarsi, questa incomunicabilità si è dissolta come neve al sole. Il governo, dice Mary Jean Liberman, «è venuto a Canossa». Mutato il linguaggio, esplora le possibilità di un rilancio a due dell'auto americana in base alle rispettive competenze. Osserva Caldwell con soddisfazione che il cambiamento «non é frutto di un calcolo elettorale, ma patrimonio comune sia del partito democratico sia di quello repubblicano». E' uno degli aspetti positivi della crisi: essa ha portato la conferma che l'auto resta il perno dell'economia nazionale. Avvisaglia della nuova strategia di Washington è stata la visita a Detroit del Presidente alla vigilia della «convention» che ha esaltato Reagan. Carter ha annunciato finanziamenti ai concessionari per agevolare le vendite dei modelli «made in Usa», la rinuncia a taluni oneri ecologici e il ricorso alla commissione internazionale dei commerci. E' quest'ultima un organismo che determina quando un set-, tore subisca danni gravi a! causa delle importazioni: e che suggerisce rimedi che vengono in genere adottati. Caldwell vi scorge un segno della volontà del governo di bloccare il «boom» giapponese negli Stati Uniti, ma soprattutto di aprire all'auto americana i mercati mondiali. «Per rimedi — sostiene — non s'intende tanto il protezionismo guanto la rinascita della nostra tecnologia». Il punto più interessante di un viaggio a Detroit oggi è proprio questo: governo, im¬ prese e sindacati hanno raggiunto un'intesa di principio per restituire all'industria il dominio internazionale. Essi hanno formato un comitato tripartito, simile a quello che rivitalizzò l'aeronautica alcuni anni fa, per l'elaborazione dei programmi a lunga scadenza e insieme per la soluzione dei problemi contingenti. Ciascuno dà un preciso contributo. Il governo alla ricerca e allo sviluppo di base, e quindi alla scoperta di fonti alternative di energia oltre che alle innovazioni tecnologiche. I sindacati alla razionalizzazione del lavoro, sotto l'aspetto sia degli uomini sia delle macchine, e al miglioramento dei rapporti interni. L'ex sottosegretario al Commercio estero Frank Veil attribuisce «il giro di boa» alla percezione, per la prima volta, «di un ordine di precedenza negli obiettivi degli Anni Ottanta». A suo parere, sull'esempio giapponese, il governo ha capito che occorre programmare la competizione all'estero «per potersi difendere incasa». Veil, che si è dimesso per protesta «contro l'antago¬ nismo preconcetto da parte di Washington verso Detroit», ritiene che la General Motors, la Chrysler e la Ford vadano sorrette per un'autentica ripresa. «Salvare la Chrysler dalla bancarotta — mi ha dichiarato — non ha senso se non si stabilisce anclie che coso dowà fare dopo». Il nuovo ministro dei Trasporti, Goldschmidt, ha la stessa concezione: « Vedo un mondo — asserisce —pieno di auto americane». Il salto compiuto dal governo ha lasciato strascichi. A Washington c'è chi vorrebbe inquadrare l'auto in una politica di riconversione globale dell'industria, affidata a un istituto pubblico. «Sono cojitrario a questo sbocco — dice Veil — perclié conduce alla partecipazione dello Stato all'impresa». L'ex sottosegretario propugna invece «un grande disegno tipo Miti, il ministero per l'Industria e i commerci internazionali a Tokyo». Egli è favorevole cioè alla definizione delle principali linee di orientamento. «Talune, le case automobilisticlie le lianno individuate da sole, come l'adozione di minicomputers per il controllo e la rettifica delle disfunzioni della vettura, Altre dovranno essere definite da tutte le forze sociali insieme, perché spesso si tratterà di contenere i costi». Il segreto, conclude Veil, sarà quello giapponese: accrescere la produttività, e dunque puntare sull'intelligenza, non sulla fatica. «L'alternativa sarebbe solo il tramonto: come potenza dell'automobile, entro il 1990 cadremmo in serie B». Cita un caso che considera esemplare. «Sino al mese scorso, a Detroit circolava la seguente battuta: la Chrysler si fa salvare dal governo americano, la American Motors dal governo francese. Ma il. secondo salvataggio è l'unico definitivo. La American Motors è stata aiutata dalla Renault, che è un'impresa pubblica. Si è trattato tuttavia di un aiuto molto intelligente: l'American Motors introdurrà da noi motori die rispetto agli attuali saranno rivoluzionari. Con la Chrysler, il governo Usa ha fatto invece un 'operazione contabile». ■ 11 discorso si conclude inevitabilmente sulle prospettive dell'Europa, stretta tra una Detroit decisa a imporsi su tutti i mercati, e un Giappone dedito all'export. Veil non scorge che una soluzione: piani a livello comunitario, il coordinamento delle attività nazionali, accordi tra le varie Case. Il potenziamento della Renault tramite la American Motors, la più piccola delle aziende Usa di settore, gli è parso «il più felice dei mairi moni d'interesse». Auspica matrimoni analoghi nell'ambito europeo. Non gli spiace rebbe neppure una «collaborazione atlantica», un far quadrato contro Tokyo. Ma ciò, ammette, sarebbe foriero di incognite, per i partners più deboli, come per l'equilibrio dell'Occidente. Ennio Carello