Una ballata di morte dal carcere-inferno di Angela Bianchini

Una ballata di morte dal carcere-inferno I dannati del peruviano Arguedas Una ballata di morte dal carcere-inferno José Maria Arguedas: «Il Sexto», traci., di Angelo Morino, ed. Einaudi, pag. 192, lire 8000. Il mondo è tutto, per certi versi, una prigione e tutte le prigioni del nostro mondo attuale, nelle loro atroci componenti di politicizzazione e non, di degradazione, di torture, di stratificazione di potere e impotenza che creano nuove classi sociali e nuovi torturati all'interno stesso della massa dei detenuti, dovrebbero essere, per molti altri versi, uguali. Eppure no: chi legga II Sexto scritto nel 1961 dal famoso narratore peruviano José Maria Arguedas (autore, molto tradotto anche in Italia, di libri a sfondo indigenista, quali / fiumi profondi e Tutte le stirpi) finisce per, concludere che il carcere in America Latina è una realta a sé stante: non soltanto assume caratteristiche diverse, esasperate, radicalizzate, diciamo atrocizzate, ma è forse una delle tematiche fondamentali della vita e della narrativa latino-americana. Non diversa dal motivo del «capo», del Presidente oppure dalla -dicotomia realtà-irrealtà, citta campagna, bianco-indio. Il Sexto, nome di un terribile carcere di Lima, risulta, perfino nel titolo, anomalo nella produzione di Arguedas, la cui opera, interrótta dal suicidio del 1969, pone l'indio, dotato di una propria identità, culturale, al centro della sua stessa collettività, Vayllu, sullo sfondo delle Ande. Rassomiglia, ma soltanto parzialmente, a un romanzo del 1971, pubblicato postumo, e non ancora tradotto in italiano, La volpe di'sotto e la volpe di sopra, tragico mescolarsi di una fauna umana diversissima, contrapposizione mai risolta della società urbana del Perù. Ma la vera realtà, qui, è di per se stessa stranita e anomala, è il carcere dove un giorno finisce un giovane, Gabriel, politicizzato, ma non fanatico, originario della zona andina: «Un villaggio nebbioso, su una specie d'immensa terranea delle Cordigliere. Lì andavano a riposare le nuvole. Sentivamo cantare gli uccelli sema vederli e non vede- vdmo neanche gli alberi dove solevano dormire o riposare a mezzogiorno... Se in quel mentre cantavano i chihuacos e le colombe, dalle voci tanto diverse, il canto spiccava, accompagnava il suono profondo dell'albero che andava dal sottosuolo all'infinito e invisibile cielo r.. Nel ricordo della sua terra che Gabriel porta all'interno del carcere sta già il senso del libro: la natura è chiusa fuori, e non riesce mai a entrare se' non come realtà altra, schiacciata dall'inferno ribollente del Sexto, i «politici», divisi tra comunisti e apristi moderati, i. ladri, gli omicidi, gli omosessuali, un'umanità che di umano ha soltanto i vizi e la sozzura. Ma la tragedia stessa, costellata da infinite morti atroci, e provocata dall'ingenuità del giovane andino, si snoda per e sul filo del canto. E' la canzone che assume il ruolo della crudeltà degrada¬ ta e ultima, senza perdere, tuttavia, là possibilità di identificarsi con quella terra lontana che nessuno, ormai, né Gabriel, né i «politici» apparentemente puri, né il bambino violentato che Gabriel vuole salvare a tutti i costi, raggiungeranno mai più. In quanto dimensione immaginativa, questo carcere raggiunge l'altro carcere, indimenticabile, descritto da Manuel Puig, argentino, nel Bacio della donna ragno: l'evasione, la fuga e al tempo stesso, la nemesi stava 11 nella ripetitività delle trame dei film che fungevano da realtà. Qui, lo spiegarsi del canto che va dalla degradazione sessuale estrema alla volontà politica, che si fa addirittura corpo umano ci dice come l'America Latina sappia inventarsi fughe inaspettate perfino dalla banalizzazione degli inferni. Angela Bianchini

Luoghi citati: America Latina, Italia, Lima, Perù