Le mummie e la luna di Guido Ceronetti

Le mummie e la luna TACCUINO LEOPARDIANO Le mummie e la luna L'edizione critica dei testi conta tra le più luminose invenzioni di questo secolo: purtroppo, non basta a fargli perdonare le spaventose. Dalla Fondazione Mondadori stanno uscendo edizioni critiche da trattenere il fiato: ho la gioia di possedere il Gesualdo di Verga, ormai illeggibile in altre, e ora davanti alle Operette Morali a cura di Ottavio Bcsomi e di una schiera di intelligenti leopardisti, di nuovo griderò al prodigio. Il filologo e l'amico del libro, la donna sola e il detenuto pentito, chiunque abbia un'anima parlante italiano o voglia addestrarsi all'introspezione e a uno stile, con vantaggio e consolazione la riceveranno. Un dono editoriale: degno di essere accostato alle migliori edizioni critiche di Francia. Un atto d'amore in un orologio di precisione. La passione leopardista, forte tuttora da noi, ci riscatta. Leopardi è di quegli autori che con la pura teurgia del verbo continuamente ringiovaniscono il mondo. Pecca fortiter ma, italiano, nativo o di elezione, resta attaccato a Leopardi. Due ristampe bolognesi di cui dobbiamo rallegrarci: l'edizione critica di Francesco Moroncini (l'editore è Cappelli) dei Canti, con tutte le varianti: La filosofia di Leopardi di Adriano Tilgher (l'editore-curatore è Massimiliano Boni). Superfluo dire l'indispensabilità della prima. La seconda non è una semplice riesumazione di una lettura invecchiata. In un suo bell'articolo sulle Operette mondadoriane (la Repubblica: mi dispiace, nel ritaglio mi manca la data) Alfredo Giuliani lo ricorda, con un giudizio oggettivamente severo del filosofo antidealista. Tilgher, è vero, non ha grandi ali, però questo suo lavoro, leggendolo l'anno passato al Centro leopardiano di Recanati, mi era parso simpatico e ancora utile, nonostante pretenda di cavare, da un pensiero tutto asistematico, un sistema compiuto, o quasi. Interessante quel che Tilgher scriveva confrontando la kantiana etica del dovere e l'etica leopardiana della passione è della virtù-illusione, tutta tendente alla svalutazione del dovere; e tra le due mi sento molto più vicino a Kant che a Leopardi. Una morale non fondata sul dovere non regge ai colpi: in profondo Leopardi la vuole fragile, anzi la scalza tutta, in questo più negativamente attuale di Kant. Ma l'inno al Dovere, di Kant, è per me una musica migliore. Sia Tilgher che Giuliani considerano il Coro delle mummie di Ruysch uno dei culmini della poesia e del pensiero di Leopardi. Hanno ragione: quella è una voce non più soltanto umana. Esce realmente dalle mummie, e lo spirito che le fa parlare è cosi disincarnato da sembrare più lontano delle dubbiose stelle da cui ci arrivano ipotetici segnali ciechi, dette Quasar. Di terreno, di carnale, di non • estinto niente... Una sillabazione medianica su labbra angeliche e non sibilline, in apparen- za e per caso recanatesi. Un testo che il' Budda Gotama avrebbe potuto scandire ai suoi monaci, e Dostoevskij nardire come il momento ineffabile di un'aura epilettica. La morte superata, soggiogata, vinta. E le mummie dicono a Ruysch che l'uscita dell'anima dal cadavere è «delle piti quiete, facili e molli», tanto quell'attimo si è abbellito nel loro ricordo, che le ha messe in una condizione sicura, ma io dubito, Giacomo mio. L'anima e il corpo (lo dico per gli animisti e gli atanatisti, sommessamente) se non si sono già bene staccati in vita attraverso lunghe prove yogiche e stoiche, si amano troppo per (asciarsi senza vio-lenza e dolore. Li vedo come quei virgiliani dell'Eneide che in un pianto senza fine si abbracciano in un addio che dura giorni e notti: complexi inter se noctemque diemque morantur. Ma forse all'anima di Giacomo, in quell'ora sfuggita al suo canto, l'uscita facile sarà stata, per compensarlo di tanta sublime fatica per la salute del cuore umano e di una coscienza stilistica in cui non si penetra senza vertigini religiose, mise-' ricordiosamente concessa. Con Leopardi fa bene discutere. Ecco una celebre battuta del dialogo tra il Tasso e il suo1 Genio familiare, proiettata sulla sua sepolcrale clausura tra i pazzi. Al Tasso che domanda quale rimedio ci sia alla noia, il Genio risponde: «Il sonno, l'oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti: perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per tutina maniera». E' un pensiero che vale per lo stile, cosi gravemente enunciato nella spelonca immaginaria dove giace Torquato: però è un paradosso. Lo stile gli dà la forza di una massima universale. In verità il puro annoiarsi è già un patire, e patire, quasi sempre (se non è uno svolazzare per una stanza con gli abiti incendiati) una lotta delle più crudeli contro la noia. Il dolore, obbligandoci a non fare, ci carcera nella più nera noia. L'oppio, più che un rimedio, mi pare un effetto della noia, e il sonno, agli annoiati è stentato, lo copre l'incubo. Il vero nemico della noia è il lavoro, e non ne vedo un altro. Leopardi lavorava moltissimo, e quando pativa si annoiava, ma per viaggiare nel loro nitido cielo, è vitale alle Operette la magia del paradosso. (Da confrontare: Enivrez-vous di Baudelaire, sulla necessità di ubriacarsi, di qualsiasi cosa, purché ci sia ebbrezza: qui il lavoro è nominato). Nel Canto NotturnoTindisgiungibilità della coppia Riposo-Noia è perfettamente ri levata (w. 105-132). Bisogna considerare, nelle Operette, l'urto incessante e l'amalgama bizzarro di due estremi: la giovinezza e la scienza del loro autore. Il paradosso, il capriccio lunare sono i loro figli legittimi, non la saggezza... Montesquieu, vecchio e cieco, diceva: se siamo destinati ad annoiarci, sappiamo annoiarci, e pensava ancora a un càlcolo dei piaceri procurabili in qualunque condizione. Anche Borges, nella sua cecità se nile, è troppo saggio per patire la noia. E ancora Montesquieu pensava che i giovani non possono mai essere felici. L'ecces so di giovinezza e d'insoddisfazione, di scienza e di patimento di Giacomo si scarica nelle Operette, dove piglia forma di mito sublime e di raggelato canto funebre. Forse le Ope rette sono più giovanili, nello spirito, in certe compiacenze estremistiche, dei Canti. Due saggi di psicocritica de dica a Foscolo e a Leopardi Giovanni Amoretti (Poesia Psicanalisi, Garzanti 1979). Di Leopardi il testo inondato dalla raffica freudiana è l'infinito. Non ne esce bene, per l'uso meccanico e maldestro dello strumento, che se non è reso aereo dalla leggerezza della: mano può provocare volgarissimi disastri. Tuttavia il sottosuolo dei testi, la loro genesi inconscia, viscerale — quello che Charles Mauron ha genialmente definito come protopoesia — possono essere,*da un abile palombaro psicocritico, portati alla luce. Amoretti ha il coraggio di calarsi giù, ma cattivo è il viàggio e la risalita. Manca completamente di amore e di stile: due cose indispensabili a un leopardista. Il saggio sullo Spavento Notturno, di Giovanni Macchia (La caduta della luna, nel volume a cui dà il titolo, Mondadori 1973) è un esempio della più squisita critica letteraria, con riscoperta di fonti classiche (Lucano) e molte osservazioni bellissime, ma sull'argomento mi ha illuminato di più uc(FUicpstfmctdtmpdgluLpp un tentativo di effrazione psicocritico di Georges Barthoul (Giacomo Leopardi, edito dalla Facoltà di Lettere e Scienze Umane di Avignone, 1974) che interpreta la luna leopardiana come simbolo dello stesso Leopardi. Barthoul è bravissimo, sovente appassionante. E dietro la finzione letteraria del frammento c'è un sogno realmente fatto («Luna caduta secondo il mio sogno»). Per Artemidoro, sognare astri che cadono, o vederli sotto il proprio tetto, è presagio quasi sempre mortale e funesto: sognando la propria morte, Leopardi la vede come un evento cosmico di grande importanza, in quella luna caduta che lascia in cielo una sanguinosa nicchia. L'immagine lucanea della luna che frigge sull'erba acquista in Leopardi un profondo valore psicologico, di tribolazione agonica, di prefigurato dolore, di illusioni disfatte, bruciate dalla vita, nello stesso giardino delle Ricordanze. L'erba su cui precipita la luna è l'arido vero, non erba ma deserto. Barthoul fa questa bellissima osservazione, sul Tramonto della Luna: quando la luna muore, è Leopardi che muore. L'identificazione spiega perché Leopardi trovi tanta malinconia nel tramontare della luna, visto come uno scolorarsi del mondo, puro paradosso, perché quella è proprio l'ora dell'avvento della luce. Quando la luna tramonta, io provo uno straordinario piacere, perché non sono un essere lunare e la sua morte mi riporta la luce, benedizione e annuncio di Dio. Leopardi invece sentiva questo come perdita dell'essere, con tormento fisico e pena d'anima. La luna è anche simbolo materno e in genere di tutto quel che è femminile. (Artemidoro dice che corrisponde anche agli occhi di chi la sogna: e la caduta della luna può indicare, nel sogno leopardiano, paura della cecità — la nicchia vuota: in colai guisa, I Ch'io n'agghiacciava — in un periodo di grave afflizione dei suoi occhi). La madre, la donna: luna caduta... Ma che orrida luna, che calvo deserto da piede di Neil Armstrong, è una luna che somigli ad Adelaide Amici! Seguendo Barthoul, preferisco • vedere nella luna di Alceta tino spavento notturno che implica perdita di vita, della realtà di nessun altro all'incuori di Giacomo. Come amant fon de la gioire, il sentimento della vanità della gloria (fissato nella prosa crudele del Patini delle Operette) lo tormenta anche più della paura della cecità, del vuoto di madre e di femmina e del proprio dissolvimento. La luna cade e non gli appare più grande di una secchia, eppure fra tante stelle non c'è quella sola luna: e una secchia è la gloria letteraria, che pareva una luna, e unico, solitaria eccezione nel brulicamelito umano, e più grande di qualsiasi luna vista o sognata, l'Io di Giacomo terribilmente cosciente di sé. Guido Ceronetti

Luoghi citati: Avignone, Francia, Recanati