I moderni di Praga
I moderni di Praga VISITANDO LA BIENNALE I moderni di Praga .._oo„^ i„-ellearee della Biennale su cui non si estende la tendenziosità della quadriglia internazionale preposta al padiglione centrale, il panorama è complessivamente grigio, incerto (talora angosciante; ma non è forse questa una coerente risposta alla realtà attuale?), ma almeno a più voci, in diversi toni, su più equilibrati livelli e partiture. Si veda, nello stesso padiglione centrale, la sezione italiana curata da Vittorio Fagone, con l'alternanza fra il gioco luminoso di trasparenze segniche e cromatiche di Griffa e la densità spaziale delle stesure di Olivieri, il paziente accumulo concettuale di Fatti (cioè di segni) della vita della Dadamaino e l'intelligente «meccanizzazione», in proiezioni e suoni dilazionati, dell'antica conturbante scienza dell'anamorfosi in Codemondo di Vaccari. Non tutti gli Anni 70 sono «poveri» e duramente reificati, non tutto il lavoro visuale o concettuale nasce sotto i! segno della sbracatura e della casualità proposte come apertura al futuro ai Magazzini del Sale. Pregiamo allora la costante tradizione di misura e di perfezione operativa del padiglione inglese, applicata al materiale di natura e agli archetipi di una protostoria magica e arcaica da Nicholas Pope, agli artifici speculari di uno spazio-luce, fra Rinascimento italiano e! neopalladianesimo, da Tim \ Head. E pregiamo la compiuta coerenza e rigore del padiglione americano, che, con i 66! esemplari grafici — nel senso tecnico, operativo, materico più ampio — di 66 «artisti, architetti, ballerini, compositori e performer*» risponde davvero! al tema proposto dalla commissaria Janet Kardon, La decade del pluralismo. ★ ★ Di fronte alla qualificazione, anche puramente manuale, operativa, di ciascuna opera presentata, s'impone una considerazione. La grande stagione contemporanea U.S.A., la cui originaria forza espressiva e di rottura, elitaria o underground, è stata poi imposta colonialisticamente, con ogni mezzo capitalistico e ufficiale,! alla cultura e soprattutto al mercato d'arte mondiale, ha saputo evidentemente acquistare negli ultimi due decenni, al proprio interno, una diversa e più valida legittimazione: quella della tradizione didattica, che altre culture nazionali hanno ostentatamente affossato e continuano a spregiare. Al di fuori di questo clima, che accademizza l'avanguardia ma che almeno propone un freno salutare ad ogni facile gioco bruciato in una stagione, da una Biennale all'altra, da una scuoletta o coschetta o gruppetto al suo contrapposto, rimangono solo le rabbie o le angosce o gli incubi o le «povertà» materiche e manuali con tono e sapore di autenticità. Terreno rischioso e soggettivo,! su cui azzardo qualche indica-1 /.ione: le iute della polacca Abakanowicz, la denuncia corporea della condizione storica femminile da parte dell'austriaca Valie Export (sublimazione ideologica, e in quanto tale valida, coinvolgente, del sadomasochismo «Body» di matrice tedesca), il padiglione israeliano, con le trincee-tombe di Ullman e lo scannatoio di Gershuni (Auschwitz? Sinai?), le fotografie di Rodri-1 guez e Serrano nel padiglione colombiano. Al di fuori di questo, poco ò nulla. Alla presenza cinese nuoce il sapore di presentazione dell'animale raro, finalmente proposto agli zoologi occidentali in carne ed ossa, non più attraverso la mediazione del manifesto e del «fumetto alfabetizzante». Quanti, fra gli zoologi, vorranno capire la dura lezione marxiana di quei ricami: l'anonimo collettivo, la manualità, la perenne tradizione nazionale? E quanti l'ironia, «storica» e contemporanea ad un tempo, di certi approdi di assoluto iperrealismo attraverso la positività obbligatoria del realismo sociale? Le Biennali del dopoguerra — e qui, per inciso, ci sarebbe' da meditare, con ben più che; un brivido, sugli studi sempre più approfonditi ed «esposti»! sull'arte «fra le due guerre» —j hanno sempre ruotato sui due fulcri della contemporaneità e della storicizzazione di questa contemporaneità. In questa seconda chiave, il raffronto fra la mostra di Balthus, alla Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, e quella dei musei contemporanei di Praga, a Ca* Pesaro, singolare, stimolante. Il solitario, letterarissimo Balthus, lievemente e morbidamente turbato dall'antico mi ssApCFeDBlnqrrc«imfsnmpfvrtacB „.„_aì t ì-:i_ istero della pubertà femminile, singolare «trait d'union» fra gli) Anni 20 e 30 di Fouijta e Cam-| pigli e Delvaux (e Radiguet e Colette), ma ben memore di; Fùssli, di Seurat, di Vallotton,; e gli Anni 70 delle fotografie d David Hamilton e dei film di Borowczyk, è la tradizione nella tradizione del contemporaneo, insomma una tradizione al ! quadrato. ± £ . Nulla di strano che Leymarie, presentandolo in catalogo, ritrovi dopo cinquant'anni accenti alla Waldemar George: «La cosiddetta modernità si è inaridita nell'imeguire i suoi miraggi e non costituisce più un fermento positivo. Dopo essere stato a lungo e stranamente tenuto nascosto dalla critica alla moda, Balthus si rivela ormai! per i giovani artisti tesi ad affrontare di nuovo il reale attraverso il trascorrere delle apparenze, un intermediario di capitale importanza». Se si accetta questo, è inutile) affrontare l'unica mirabile occasione ed esperienza di questa' Biennale, la campionatura dei . : j: « J: tesori di arte contemporanea di Praga, frutto di una cultura; che alla «cosiddetta modernità». credeva fin dall'ultimo decennio dell'Impero asburgico: Kupka (e Kafka) lo dimostrano, e gli stupendi Picasso e| Braque raccolti da Vincenq' Kramàr, e gli autoctoni cubo-! futuristi, Benes, Capek, Kubi-1 sta, Prochazka, Spala, Zrzavy, con sbocchi surrealisti in Sima e Filla (esemplificati a Venezia: solo per il primo), e gli scultori evolventesi dal cubismo alla Nuova Oggettività espressionistica e «popolare», il grande Gutfreund e Dvorak. , Chi volesse u giorno affrontare l'impegno di presenta-' re alla cultura artistica di oggi la stagione dell'avanguardia slavo-balcanica 1910-30, dalla Cecoslovacchia alla Polonia all'Ungheria — territorio di trasmissione e reazione e amalgama fra Occidente e Russia, nel-1 le arti figurative quanto in quelle sceniche — darebbe un. vero contributo, di progresso e non di riflusso, alla tradizione del contemporaneo. Marco Rosei
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