Jugoslavia, complesso mosaico salvato con la svalutazione

Jugoslavia, complesso mosaico salvato con la svalutazione Perché il terremoto finanziario nel dopo-Tito Jugoslavia, complesso mosaico salvato con la svalutazione DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE BELGRADO — Provvedimento drastico e inevitabile ma motivato da considerazioni puramente economiche: è la prima, ovvia «chiave di lettura» della svalutazione del dinaro jugoslavo, deprezzato il 6 giugno di quasi un terzo nei confronti delle monete occidentali. Il vero significato del terremoto finanziario scatenato dagli eredi di Tito è però un altro, cioè un grosso atto di coraggio politico in quanto accetta di introdurre un rimedio tipico del capitalismo in un sistema di ispirazione socialista. In altre parole, la Jugoslavia sa che la bussola del suo sviluppo punta ad Ovest; è II, e non ad Oriente, che si trovano i mercati ai quali bisogna adeguarsi, nessuna vergogna quindi a servirsi di uno strumento tabù nel vocabolario classico dell'economia comunista. In sintesi è questo il senso del messaggio che i dirigenti jugoslavi stanno lanciando in più direzioni per aiutare a capire la complessità della loro situazione interna. Se infatti da uria parte è ormai indubbio che i 120 giorni di agonia del suo leader carismatico hanno consentito al Paese di rodare fin nei minimi dettagli l'intricato meccanismo della direzione collettiva del potere, è anche altrettanto evidente che non si poteva rinviare ulteriormente l'impegno di porre fine al lungo e progressivo deterioramento della congiuntura nazionale.«A smuovere tuttavia un mattone c'era 11 pericolo che ci crollasse addosso l'intero edificio», spiega un politologo croato. «Non restava altra scelta che correre un rischio calcolato che si inquadrasse nella singolarità, della struttura jugoslava, la versione balcanica di un melting pot all'americana: 24 etnie nazionali, quattro lingue ufficiali, tre religioni e due alfabeti, il tutto, ora che Tito è morto, senza un capo». In più sono da sottolineare, come si sforzano di rilevare a Belgrado, ancora due caratteristiche di fondo della «miscela federale», la coabitazione di sei Repubbliche e di due province autonome da sempre poco omogenee, e l'autogestione, l'invenzione di Edvard Kardelj, via di mezzo fra iniziativa privata e proprietà di gruppo, ambedue fenomeni che sussistono soltanto grazie ad, equilibri assai calibrati. Sentiamo un'altra puntua- lizzazione, da parte di un membro del partito. «Forse lo stesso Tito avrebbe esitato dinanzi ad un gesto cosi impopolare, dire oggi che i tuoi soldi valgono il 30 per cento in meno di quelli che avevi ieri nel portafoglio. E pensare che la lira turca, di certo più malata del nostro dinaro, è stata svalutata giorni fa appena del 5,8 per cento». Di sicuro è che la «linea dura» ha prevalso sui fautori di un atteggiamento più morbido, meno intransigente. Se ne è fatto portavoce il presidente del Consiglio federale esecutivo, Vesetin Gìuranovic, elencando'i motivi che hanno spinto il governo ad agire con ; mano pesante, un pugno di ferro però che, vibrato il colpo, non intende ora infierire sul malato confidando invece nella sua rapida guarigione. In sostanza, ha detto il premier jugoslavo,. si è dovuto violare «momentaneamente» la frontiera che separa il dirigismo centralizzato dall'autonomia locale invadendo il terreno delle prerogative decisionali che lo Stato da anni aveva delegato alle imprese autogestite. Su queste ricade la colpa di non avere rispettato le raccomandazioni intese a coordinare l'attività produttiva. Esempio: se il governo macedone decideva la costruzione di una fabbrica che avrebbe finito per diventare il doppione inutile di una uguale, già in funzione nella vicina Serbia, Belgrado non poteva intervenire. Risultato: quasi un terzo delle società autogestite opera in perdita; circa 800 mila disoccupati potenziali sono costretti ad emigrare in Francia e in Germania; l'economia si sviluppa troppo velocemente ed in modo disordinato, oltre il 7 per cento l'anno, ingoiando a dismisura le materie prime comprate all'estero; la bilancia dell'interscambio registra un disavanzo pauroso, quasi quattro miliardi di dollari, per lo scompenso fra importazioni, cresciute del 48 per cento, ed esportazioni, salite solo del 18 per cento. Ed è cosi che l'inflazione galoppa attorno al 26 per cento; molti generi di largo consumo, zucchero, olio, caffè, detersivi, sono spariti dagli spacci di Stato; si preferisce alimentare il mercato interno, più redditizio, invece di concentrare gli sforzi verso l'export. Il 1980, sostiene il primo mi nistro, deve perciò essere l'an no della stabilizzazione. Il de ficit dei conti con l'estero sarà per lo meno dimezzato; la svalutazione, purché si congelino i prezzi, agevolerà il turismo, fonte vitale di valuta pregiata; verrà imposto un giro di vite ai crediti «facili» erogati dalle banche a ditte che non meritavano di essere aiutate, si farà tesoro degli ammonimenti impartiti proprio la scorsa settimana dall'Ocse («maggiore severità nella conduzione economica per evitare sprechi produttivi»;; si useranno con estrema cura i 340 milioni di diritti speciali di prelievo «stand-by» concessi in prestito dal Fondo monetario internazionale; verrà stimolata la gestione privata nei settori dove le è concesso di operare, agricoltura, artigianato, conduzioni familiari; si favorirà il graduale avvicinamento alla Cee. Ciò però che importa maggiormente agli jugoslavi è che il cardine dell'autogestione [ non fosse messo in discussione. Lo storico esperimento continuerà, per ora è stato soltanto richiamato all'ordine. Piero de Garzarolli

Persone citate: Edvard Kardelj, Piero De Garzarolli

Luoghi citati: Belgrado, Francia, Germania, Jugoslavia, Serbia