I «gusci vuoti» di Broodthaers un ironico sovversivo dell'arte
I «gusci vuoti» di Broodthaers un ironico sovversivo dell'arte UNA MOSTRA ALLA TATE GALLERY, 4 ANNI DOPO LA MORTE I «gusci vuoti» di Broodthaers un ironico sovversivo dell'arte LONDRA — Qualche anno fa apparve sull'Obseruer uno dei famosi ..ritratti» che il settimanale dedica a personaggi importanti. Quella volta era dedicato a un grande eccentrico scienziato, affascinante recluso, che aveva rifiutato un Premio Nobel, corrisposto con Lord Russell e Jean Paul Sartre, ci si domandò perché mai non lo si fosse mai sentito nominare prima. E il personaggio era cosi realistico che nessuno guardò la data di pubblicazione: il primo aprile. Il personaggio di Marcel Broodthaers, al quale la Tate dedica una retrospettiva (è morto nel 76) è invece cosi «inventato» che si cerca subito la chiave scherzosa: che un museo cosi serio come la Tate Gallery si sia ricordata del pesce d'aprile? Ma, no, è giugno. L'ironia, il sardonico, la presa in giro dei valori accettati dilaga nell'opera di Broodthaers, poeta magrittiano che aveva passato gli ultimi anni della sua vita a Londra. Ma era belga, e i belgi, specie se gente d'arte, sono orfani culturali, senza padre né madre, con terribili matrigne petulanti come la Francia e la Germania. Il suo mestiere, la qualifica, era elusiva: era poeta, vendeva libri rari (organizzò persino un'asta nella quale era lui il battitore ufficiale), faceva il cicerone al museo di Bruxelles recitando anche delle scenette. Quando dava delle conferenze, si travestiva; fece film sperimentali, fotografie, articoli, ma rimase sempre al confine, era uno spregiudicato. E come quasi tutti i dilettanti ribelli, era anche bello. Fu amico di Magritte, ammirava ed era influenzato da Kurt Schwitters, ma anche dagli americani più spinti, George Segai, Dine Lichtenstein, Oldenburg che gli diedero l'idea della pop art vissuta, più che rappresentata. E cosi a 40 anni cambiò vita, in questo modo: «Anch'io mi domandai se non avessi potuto vendere qualche cosa e riuscire. Per vario tempo non ero stato capace di far niente. Finalmente l'idea di inventare qualche cosa di insincero mi venne in mente, e ini misi subito al lavoro. Alla fine di tre mesi mostrai la mia produzione a P. T. Toussaint, proprietario della galleria Saint Laurent. "Ma è dell'arte", disse, "e esporrei volentieri tutto". "Va bene", gli risposi. "Se vendo qualche cosa prenderò il trenta per cento ". Sono, pare, delle condizioni normali, certe gallerie prendono il settantacinquepercento. Che cos'è?In effetti, degli oggetti». Ma invece di essere oggetti che imitavano, erano oggetti veri e propri, una parodia dell'oggetto .d'arte esposto. Marcel Broodthaers era un sovversivo dell'arte ed allo stesso tempo era affascinato dalla forma visiva della burocrazia del museo, delle esposizioni, del rito. Le sue mostre le concepiva dal biglietto d'invito al catalogo: l'importante era l'involucro, non il contenuto. Una sua mostra, chiamata «Museo d'arte moderna, dipartimento delle aquile, sezione...» durò anni; allestita a casa sua, tanto l'apertura che la chiusura furono occasioni trattate in modo formale, con conferenze «vere» fatte da direttori di musei «veri». L'esposizione, poi, non esisteva. Le 300 immagini di aquile portavano una descrizione formale in inglese, francese e tedesco che avvertiva «Questa non è un'opera d'arte». Un'altra esposizione consisteva nell'involucro del «museo» : le stanze erano piene di casse da imballaggio fuori c'era persino un camion in attesa con la scritta «eesuM»-Musee~ al contrario C'era, insomma il guscio, ma mancava la sostanza, i quadri. Era il '68, un momento nel quale si metteva in discussione il controllo delle istituzioni: e quindi poter fare la parodia del curatore di museo che usurpa il ruolo del pittore, era certo attraente. Queste esposizioni viaggiavano il mondo, alla Kunsthalle, a Dusseldorf, alla Ica a Londra, ad Anversa. Ma alla gloria di un grande museo come la Tate, Broodthaers ci arriva solo dopo la morte — lo prevedeva, del resto. E' un atto di coraggio, da parte della Tate, voler descrivere un negatore delle mostre, dei musei, in una mostra in un museo; e difatti la serietà obbligatoria del catalogo, il contesto semiotico, sembra essere una continuazione dell'ironia di Marcel Broodthaers. Predominano nelle vetrine, nel contesto di «guscio» altri gusci, uova o muscoli, entrambi involucri svuotati. Sono variamente presentati dal Nostro, in vaso, in pignatta, in pannelli uno appiccicato all'altro. Siamo sempre sul tema dell'involucro che non contiene niente, della forma e qui il messaggio è l'opposto di quello di Duchamp, il diritto per il quale un oggetto selezionato da un pittore e messo in un contesto da esposizione diventa opera d'arte; guardate bene, sembra dirci Broodthaers (che ovviamente rimane sempre poeta, per cui non parliamo né di pittura né di scultura), questa opera d'arte non è. Questo concetto è esplicito in un «oggetto» fatto di tele bianche appiccicate una sull'altra o scarpe da donna dipinte a pois (involucri senza uso) o padelle che friggono una testa di leone dipinta. I suoi titoli, poi, sono giochi di parole, divertimenti. E il gusto dell'ironia permane da parte dei «non-oggetti», della carta stampata, dei finti attestati, dei simboli tipografici. Gaia Servadio
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