Attacco alla Francia, sulle Alpi di Giuseppe Mayda

Attacco alla Francia, sulle Alpi GIUGNO 1940: COMINCIA PER LTTALIA UNA TRAGICA AVVENTURA Attacco alla Francia, sulle Alpi La guerra sul fronte occidentale dura solo 14 giorni -1 nostri 300 mila uomini, agli ordini di Graziani, avanzano in media di mezzo chilometro; 1200 sono fatti prigionieri - Sanguinosa lotta ai forti di Briancon e delle Traversette - L'armistizio firmato a Villa Incisa il 23 giugno - Intanto, l'aereo di Italo Balbo è abbattuto in Africa dalla contraerea italiana Oggi, sulle Alpi, di quella breve guerra combattuta quarant'anni fa fra Italia e Francia (la chiamarono, poi, la guerra dimenticata»^ restano poche tracce: i reticolati sui ghiaioni del Monginevro attorno allo Chaberton. I sinistri ruderi del forte delle Traversette cbn le porte di ferro sforacchiate dalle scariche di mitraglia, le basse casematte sepolte nell'erba gialla lungo i pendii del col della Maddalena, le intermi-nabili scalinate di pietra nei, sotterranei dell'Esseillon. Dovunque chiazze di neve, nebbia che stagna nelle gole, silenzio. Ed è così anche nel giugno 1940, un mese di cattivo tempo per le Alpi Occidentali: piove e nevischia, alle alte quote il termometro è quasi sempre sotto lo sera. Dal Monte Bianco a Ventimiglia ì nostri soldati sono ancora con le armi al piede e vi rimangono dal giorno 10, dichiarazione di guerra, fino al giovedì 20. Questo fronte tormentato e difficile (già von, Clausewitz lo sconsigliava: «Attaccare la Francia dalle Alpi — scrìveva — è come voler sollevare un fucile afferrandolo per la punta della baionetta»; è tenuto dal Gruppo Armate Ovest del Principe di Piemonte — ma il comando strategico è affida-', to a Graziani, capo di Stato Maggiore dell'esercito — con 300.000 uomini e 12.500 ufficiali. A Monaco Le 22 divisioni e i tre raggruppamenti alpini sono divisi in due armate, la IV (generale Guzzoni) che presidia il tratto dal Dolent al Granerò e lai (generale Pintor) dal Granerò al mare. Il versante francese delle Alpi è profondò 120^ km, quello italiano 40. Ovunque il terreno è aspro e fra i massicci del Rocciamelone, del Tabor, del Clapier, dell'Argenterà e del Monviso, i passi praticabili sono pochi. Dinanzi a noi ci sono forze notevolmente inferiori. All'i¬ nizio della guerra con la Germania l'alto comando francese aveva stanziato a ridosso delle Alpi italiane mezzo milione di uomini ma questa cifra, via via assottigliata per le drammatiche richieste di rinforzi al fronte Nord, si è ridotta a circa 120.000 soldati: 83.000 in prima lìnea, altri 30.000 tenuti di riserva a Lione. I francesi, però, sono avvantaggiati dalle fortificazioni alla cui costruzione hanno messo mano un decennio prima e in pratica sono già completate: i nostri lavori di difesa, buttati giù alla meglio (ci sono bunker privi di impianto di aerazione: appena si spara il locale si riempie di gas irrespirabile) risalgono invece soltanto a due anni addietro, alla primavera 1938. Passano i giorni e tolte alcune scaramucce con i francesi al Passo della Galisia, nell'alta Valle dell'Orco, e a Punta Maurìn (tutte avvenute fra il 12 e il 13 giugno, mentre i tedeschi stanno occupando Parigi) il fronte alpino tace. Solo il 17 la Francia si arrende a Hitler e Mussolini, convinto che Parigi s'arrenderà automaticamente anche a lui, prepara una serie di richieste esose e immeritate (occupazione fino al Rodano, della Corsica, della Tunisia, di Gibuti, di Algeri, di Orano e di Casablanca; la consegna delle flotte marittima e aerea) che Hitler approva, sconsigliando solo quella che riguarda le navi perché c'è rischio che la flotta si autoaffondi o passi agli inglesi. Tornando da Monaco, scornato, Mussolini si rende conto dell'assurdo di trattare un armistizio per una guerra dichiarata, si, ma non combattuta. Appena a Roma chiama Badoglio, lo informa che il capo dell'OKW, Keitel, gli ha detto che i tedeschi sono pronti ad appoggiare le nostre operazioni su Chambéry e Grenoble e quindi giovedì 20 la IV armata e venerdì 21 la I dovranno passare all'attacco. Così, sotto nevicate e piogge battenti, proprio nel giorno in cui a Compiègne la Francia firma l'armistizio con la Germania, scateniamo una di quelle battaglie frontali tanto deprecate durante la prima guerra mondiale e contro forze nemiche rimaste intatte al riparo delle fortificazioni della Maginot alpina. Al Piccolo Sanbernardo, dove il piazzale del valico è tenuto da un tenente degli «Chasseurs des Alpes» con una mitragliatrice e 45 soldati (e resisterà fino a lunedì 24 giugno, termine delle operazioni) gli alpini superano il ghiacciaio della Seigne, raggiungono prima la linea Mont Tondu-Combe NoìreChalet de la Lancette e poi la Veis, proseguendo oltre il forte delle Traversette (che i francesi chiamano «redoute ruinée» e il cui presidio resisterà fino all'armistizio) occupando il fondo della Val d'Isère. Una colonna di alpini e di camicie nere, nel settore del AToncewisio, raggiunge Bessan (Valle dell'Are) e avanza su Termignon e Lanslebourg. La «Cagliari» occupa Bramans; la «Brennero», invece è costretta a fermarsi davanti ai forti del Moncenisio. Al Mongìnevro, quando sarà finita la guerra, risulterà che siamo penetrati di poco più di tre chilometri anche perché, a causa del maltempo, l'aviazione non ha potuto intervenire: i forti di Briancon, inoltre, sono protetti dalla più densa delle nebbie (e tuttavia le batterie del «Trois Tète», alla prima salva, hanno saputo centrare le torrette del nostro Chaberton). Sull'ultimo fronti, quello della riviera ligure, è ancora peggio, non per colpa del tempo — che è bellissimo — ma della disorganizzazione: quanto accade sulla costa può davvero ricordare l'armata Brancaleone. Poiché Gambara, che è a capo del settore, fa molto conto sui treni armati, la mattina del 21 giugno il treno n. 2, dotato di quattro cannoni da 152 mm, esce dalla galleria ferroviaria sotto i Giardini Hahbury per battere le postazioni nemiche dì Cap Martin ma, appena mezz'ora dopo, due dei nostri pezzi sono fuori combattimento. Come alternativa si organizzano, allora, due sbarchi sulla Costa Azzurra. La «flotta d'invasione» è composta da una ventina di barche a motore (che alcuni incidenti durante le esercitazioni ridurranno poi a otto); quando muove verso Mentane, nella notte del 23 giugno, è respinta dal mare in burrasca contro il promontorio della Mortola e finisce per desistere dal tentativo. Un delitto? Ma, a questo punto, la Francia si arrende anche a noi: per il vero lo aveva già chiesto, una settimana prima, il 17 giugno, attraverso il Nunzio apostolico monsignor Valeri ma Mussolini aveva sdegnosamente rifiutato il tramite del Vaticano. La delegazione francese, della quale fa ■ parte anche Parisot, guidata dall'ambasciatore Noel e dal generale Huntziger, arriva a Ciampino — su aerei militari tedeschi — alle 15 di domenica 23 giugno e alle 19 è a Villa Incisa, all'Olgiata, sulla via Cassia. Noi andiamo a queste trattative con un pesante bilancio di perdite: 631 morti, 2.631 feriti e congelati e 616 dispersi (e, cifra tenuta gelosamente segreta dal regime, 1.141 prigionieri). I francesi hanno avuto 37 morti, 150 dispersi e 42 feriti. La nostra delegazione — formata da Ciano, Badoglio, Pricolo e Roatta — illustra le condizioni per il «cessate il fuoco», che risultano molto ridotte rispetto alle originali pretese perché, in un messaggio a Hitler, Mussolini aveva detto che «... allo scopo di facilitare l'accettazione dell'armistizio da parte dei francesi, non ho incluso (...) l'occupazione della sponda sinistra del Rodano, della Corsica, di Tunisi e di Gibuti, come et eravamo proposti a Monaco. Mi sono limitato a un minimo, una zona smilitarizzata di cinquanta chilometri (...). Per il resto mi sono basato sulle clausole dell'armistizio tedesco». La delegazione francese, a sentire le richieste italiane, prova «un immenso sollievo». La discussione, aggiornata per poter informare i rispettivi governi, si conclude l'indomani con la firma dell'armistizio e ufficialmente le ostilità cessano alle ore 1,35 di martedì 25 giugno: «Tra sei ore non si sparerà, più — co?tfida Ciano al "Diario" — (...) oggi a Costantinopoli tutte le navi mercantili francesi hanno alzato bandiera inglese. La guerra non è ancora finita, anzi ' comincia adesso. Avremo tante sorprese da levarcene la voglia». E la prima è tragica, arriva dalla Libia: Italo Balbo muore per un incidente nel pomeriggio di venerdì 28 giugno, alle 17,30. Balbo era partito da Derna, diretto alla base di Sidi Azeìs, a bordo di un trimotore S-79, che pilotava personalmente e sul quale avevano preso posto, fra gli altri, suo nipote Lino Balbo, federale di Ferrara, e il direttore del Corriere Padano, Nello Quilici. L'aereo era giunto nel cielo di Tobruk mentre una formazione inglese stava bombardando da alta quota l'aeroporto. Da terra il fuoco della contraerea era violentissimo e un colpo di mitragliera da 20, esploso dall'incrociatore San Giorgio, aveva centrato il trimotore di Balbo abbatten-' dolo. Mussolini apprende la notizia della sciagura mentre è a Torino in visita alle valli piemontesi dove si è combattuta la brevissima guerra contro la Francia. Non si commuove; chiede anzi a Badoglio chi potrà sostituire Balbo e la scelta cade sull'ex poliziotto della Libia, Rodolfo Graziani f«Balbo? — dirà più tardi il Duce, nei mesi della crepuscolare repubblica di Salò —. Un bell'alpino, un grande aviatore, un autentico rivoluzionario. Il solo che sarebbe stato capace di uccidermi»;. In Italia corre voce che l'incidente aviatorio toccato a Balbo celi un delitto politico, una vendetta di Mussolini; si dice che Balbo sia stato abbattuto per impedirgli di volare dagli inglesi a trattare la pace, anche perché la vedova, ■contessa Florio — secondo un rapporto del prefetto di Ferrara, Temistocle Testa, al capo della polizìa. Bocchini — va in giro raccontando che «Italo non voleva la guerra, si era sempre opposto perché diceva che non eravamo preparati». La verità è proprio questa, che non siamo preparati, ma Mussolini — continuando a inseguire i suoi sogni di gloria militare — non tarderà a trascinare l'Italia ancora più giù, verso il fondo del baratro. Giuseppe Mayda