La crisi di un'Europa espatriata di Arrigo Levi

La crisi di un'Europa espatriata A COLLOQUIO CON I GRANDI SCRITTORI ARGENTINI JORGE LUIS BORGES E ERNESTO SABATO La crisi di un'Europa espatriata Così Borges definisce il suo Paese - «E' una storia di guerre civili, ma non lo furono pure le guerre europee?» - «Anche la repressione è stata una forma di terrorismo» - «Non posso tacere davanti ai morti, agli scomparsi» - Sabato ricorda gli errori del peronismo e la spirale terroristica nata all'alba degli Anni 70: «Ai delitti si risponda con la legge, altrimenti è una scalata alla violenza» - «Il dialogo che la giunta militare sollecita è così limitato da essere incompatibile con i diritti costituzionali al dissenso» - «Gli argentini dovrebbero dire: "Siamo stati tutti colpevoli" » DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE BUENOS AIRES - Per. spiegare il «caso argentino», do la parola, per primi, a due grandi scrittori; Jorge Luis Borges, Ernesto Sabato. Così europei, così argentini. Così fantastici, così metafisici, e così' realisti. Così simili e così diver-l si. Borges nasce da vecchia stir-, pe militare e spagnola, Sabato è il tipico erede di emigranti italiani, con la loro operosità e coscienza civile, e il bisogno di una patria. Borges ama fare' sfoggio, con un'ironia provocatoria che non tutti colgono, del; suo estremo conservatorismo. Sabato è un classico intellettuale democratico-progressista. 1 due scrittori sono amici, avvicinati dall'essere tra le pochissime voci libere di questo Paese, pesantemente traumatizzato dagli anni insanguinati del terrorismo e della repressione. Di fronte al dramma argentino, di fronte all'esplodere della violenza e al crollo dei valori, l'uno e l'altro dichiarano tenacemente di voler fare «un discolo etico», legato a principi morali che si rifiutano di abbandonare e in base ai quali si sforzano di capire, di spiegare, ma anche di giudicare una storia drammatica, di cui non si può ancora parlare al tempo passato. La tragedia Ho visitato Sabato in due domeniche successive, per intense discussioni nello studio della sua casa piccola, tra grandi alberi, in un quartiere popolare di periferia, Santos Lugares. Ho ascoltato Borges parlare come a se stesso (l'occhio quasi spento dà alle sue parole mormorate un tono di profezia, che suggerisce più l'ascolto del dialogo) nel'suo apparta mento borghese, nel cuore della vecchia città, à un passò dalla elegante calle Plorida e dal la aristocratica piazza San Martin. Prima d'inoltrarmi in questa ricerca argentina, debbo dichiarare al lettore il mio interesse personale: l'Argentina è una delle mie patrie, un anello incancellabile della mia vita qi;.ìttro anni preziosi e lontani. Va il 1942 e il 1946; rappresen ta il rifugio dall'ecatombe eu¬ ropea, la Facultad de della Calle Viamonte, Le t ras i moti studenteschi antiperonisti che si conclusero con cinquemila di noi impacchettati dalla polizia per pochi giorni, con qualche ruvidezza, nel grande carcere di Villa Devoto; dove, non ricordo più perché, mi toccò d'essere soprannominato José Spadavecchia e veder poi narrate certe del tutto immaginarie imprese di codesto Spadavecchia, illustrate dai disegni del grande Oski, sul settimanale satirico Cascabel. Nel mio stesso «cuadro quinto», dove, in quattrocento, cantavamo canzoni dei repubblicani spagnoli, c'era anche l'attuale «zar» dell'economia argentina. Martinez de Hoz. Percorrendo questo mio itinerario argentino è riemersa in me con violenza la lingua della mia giovinezza; di notte mi risvegliano come lampi parole sonore che sembravano e non erano dimenticate, come non è dimenticata la coscienza che ho, e l'amore che provo, per questa grande, filosofante città europea, e quasi città italiana, che se al mondo rimanesse soltanto Buenos Aires, sapremmo egualmente che cosa è stata l'Europa in ogni suo aspetto, frivolo o sostanziale. Continuo a chiedermi, in queste giornate terribilmente intense, se questa storia argentina, con le sue vette di tragedia, non sia, in fondo, assai più una storia europea che una storia latino-americana; indagando sull'Argentina, mi pare di scavare dentro di noi. Borges e Sabato mi capiscono bene. Il discorso di Borges ha la profondità lieve dell'autoironia: «Non posso spiegarle il mio Paese, perché non lo capisco, come a volte non capisco me stesso. Se vuole una spiegazione, posso inventarne più d'una. Amo l'Argentina, ma non la capisco; come non capisco l'universo». Sommessamente obietto che ciò non è possibile, almeno per l'universo, che le sue novelle fantastiche e filosofiche, ci hanno aiutato a capire. Ribatte: «Ma si forse l'universo è la sola cosa che capisco. Ma l'Argentina... E poi, yo no soy politico». Lo ha già detto pochi giorni fa in un'intervista a un giornale spagnolo a Madrid: ma anche questa è autoironia. Un solo giornale argentino, la grande e vecchia Prensa, che più d'ogni altro si concede di tanto in tanto il diritto di dire ciò che pensa, ha ripubblicato intere le sue parole: «La mia posizione sull'Argentina è puramente etica. Non posso ignorare il grave problema morale che si 'è' imposto nel Paese, tanto col terrorismo come con la repressione, In nessun modo posso tacere di fronte a questi mojrti, a questi scomparsi. Non approvo alcuna forma di lotta in cui il fine giustifichi i mezzi: il fine non giustifica mai i mezzi». «Non sono un politico, mi ripete Borges. Posso dirle solo questo. Che la repressione è stata anch'essa una forma di terro¬ rismo: due terrorismi, di sinistra e di destra. Quando si arresta la gente, ma poi non la si sottopone a giudizio, non posso tacere. Mi si dice: uno non deve dire queste cose, per salvare l'immagine del suo Paese. Ma la realtà èpiù importante dell'immagine. E poi, io non ho alcun vincolo ufficiale. Ero direttore della Biblioteca Nazionale, lasciai il posto quando tornò Perón. Mia madre viveva ancora e mi disse, non potrai restare neanche un giorno. Non potevo espormi a dover incontrare Perón. Ma anche su questo governo (che ha rovesciato la "Presidenta" Perón) non ho alcuna influenza, né posso averla. Questo governo è nazionalista, e io non lo sono. E ' cattolico, e io non sono nem¬ o l a meno sicuro d'essere cristiano, e se lo fossi non sarei cattolico.' Non ho incarichi, lo sono un uomo libero». Dico, forse con ingenuità, il mio dolore per una storia così insanguinata di un «mio» Paese, che mi è così caro. Replica Borges: «Fu, fin dal secolo scorso, una storia molto sanguinosa. Nell'Ottocento il dittatore Rosas fece fucilare uno zio di mio nonno contro il paredón del cimitero della Recoleta, che c'è ancora verso la calle Pueyrredón; obbligarono il figlio undicenne ad assistere. Anche un mio ^nonno, il colonnello Borges, finì ucciso. Ma quanti altri ■Paesi non hanno avuto una storia egualmente crudele?». Chiedo: «E' una storia europea?». «Sì, caramba, una storia di guerre civili, ma non furono guerre civili anche le guerre europee? Questo è un Paese europeo desterrado. anch'io mi sento un europeo desterrado, esiliato». Sul filo della memoria, Borges rievoca ancora i suoi antenati militari; mormora il verso di una sua vecchia poesia: «No haber sido una espada en la batalla». Aggiunge: «Non lo dico certo con nostalgia. Sarei stato una pessima spada nella battaglia. Altro era il mio destino». Ernesto Sabato. Alle sue spalle, mentre mi parla, un suo autoritratto, assi bello, dipinto da poco: Sabato giovane, quando non era ancora scrittore, ma fisico all'Istituto Curie; somiglia tanto a Gramsci. Al suo fianco, attenta, la moglie Matilde, argentina, ebrea; inserisce nel discorso piccoli, acuti «giudizi di valore», come dice, rimproverandola. Sabato, che si sforza, con limitato successo, di tenersi «ai fatti». Dietro Perón Anche Sabato si dichiara «non politico», anche lui, per spiegare il presente, guarda al passato. Narra, con tenerezza, di Buenos Aires città europea, dove, all'inizio del secolo, i figli degli immigranti diventarono scrittori, musicisti, poeti, fisici, chirurghi. Non a caso, negli anni difficili che viviamo, questa città ha mandato in giro per il mondo tanti artisti di successo. Veniamo a Perón e al peronismo. Sabato non ha mai amato Perón, come non l'ha amato alcun intelletuale democratico argentino, e ne ha compreso tutta la carica di corruzione. Sabato fu però tra i primi a capire che dietro Perón. dietro il suo cinismo e la sua demagogia fascistoide. c'era qualcosa di diverso e di molto più importante, che era il peronismo. come movimento di masse immigrate nella metropoli dal profondo retroterra latino-americano dell'Argentina. Una speranza I partiti degli emigranti, fossero radicali o liberali, socialisti o comunisti ignorarono e non capirono quelle masse, che Perón, in virtù del suo opportunismo, fece irrompere, per la prima volta, sulla scena argentina, e che ricevettero da allora un marchio «peronista», più cancellato. Perón stesso «non era peronista», lo era invece Evita, che morente diceva al marito: «No te olvidés nunca de mis grasitas», non ti dimenticare mai dei miei poveracci. I poveracci fecero il primo peronismo; il secondo, negli Anni Settanta, fu quello dei figli d'intellettuali e borghesi che lo impastarono con i miti rivoluzionari castristi, rilanciati dall'Europa del Sessantotto. Ne nacque l'orrore del terrorismo argentino, all'alba degli Anni Settanta: il sanguinario punto di partenza di una storia terribile, europea e latino-americana. «Nel marzo del 1976, mi dice Sabato. /'/ nostro Paese era arri vaio ad uno stato catastrofico, con un'inflazione di quasi il mille per cento, un caos politico e terroristico. Non deve stupire che il Paese ricevesse il golpe militare con sollievo e speranza. Ma proprio pochi giorni prima, il 1" marzo di quell'anno, avevo . scritto in una rivista: "Momento pericolosissimo è. quello in, cui i popoli possono cadere nella tentazione di quell'ordine che già sperimentò una volta l'Ita 'lia, un'altra volta la Germania, e che portò soltanto altre lagrime, altra distruzione e morte, fino alla catastrofe totale"». Che è accaduto dopo il 1976? ffqstmcvmvMpegegcqp e e , o n, e «Parlando di economia, l'inflazione delirante è certo stata frenata, ma stiamo pagando per questo un prezzo altrettanto distruttivo: la distruzione appunto di tutta l'industria piccola e media, la fine cioè della grande classe media che un tempo avevamo, la decerebrazione, per mancanza di mezzi, delle università e degli istituti di ricerca. Ma non è l'economia che piti mi preoccupa, bensì la libertà. Vi erano ragioni per spiegare il golpe del 1976. ma non la sua eternización con strumenti legali. Le forze armate hanno compiti onorevoli e \pecifici in qualsiasi Paese civilizzato, coni-1 piti che sono, da noi, perfettamente delineati nella saggia costituzione che il Paese si è costruito, a partire dal 1853. Ma non possiamo né dobbiamo ammettere altre prerogative per le forze armate, oltre quelle tassativamente fissate dalla nostra Alagna Charta». Conclude Sabato (bisogna esser qua, per capire il peso e il coraggio di queste parole): «Il dialogo politico che la giunta militare sollecita è limitato e condizionato in tal modo da essere incompatibile con ì diritti costituzionali al dissenso. In tali condizioni, non condurrà ad alcun risultato. Ciò di cui ab biamo bisogno è. semplicemente e pianamente, la rinascita delle istituzioni repubblicane, consa crate dalla legge suprema della Nazione». Alla Commissione dei Diritti Umani deH'OEA, che lo intervistò lo scorso anno nella sua casa. Sabato disse di non poter ammettere che esistano violazioni «giustificabili» della legge: dir questo, «è uno dei più' oscuri errori del nostro tempo, che ha più volte condotto alla barbarie. Ai delitti dei terroristi bisogna rispondere con la legge, la più dura delle leggi, ma la legge. Altrimenti vi è una scala ta della violenza, della crudeltà e del sadismo, senza fine. Spero. concluse, che il mio Paese tagli questo circolo vizioso ponendo tutti i detenuti politici a disposizione dei tribunali ordinari; perché siano puniti i colpevoli, liberati gli innocenti». Sabato mi rilegge queste parole, ed aggiunge: «Spero che il mio Paese possa costruire una società migliore sulla base del rispetto sacro della persona, della democrazia e della giustizia sociale». Ma è possibile vedere nel prossimo futuro una riconciliazione degli argentini? Siamo — pensando alla «guerra civile» europea — dopo la prima, o dopo la seconda guerra mondiale? Siamo — pensando alla guerra civile spagnola — nel 1937 o nel 1974? Replica Sabato: «Sono uno scrittore, credo alle mie intui¬ zioni più che ai mìei ragionamenti, alle ragioni del cuore più che a quelle della testa. Ma non 'so risponderle; tanta gente viene a trovarmi per parlare di questo, ascollo tante opinioni sincere, ma tanto diverse. Se almeno ci fosse meno arroganza, più umiltà, il saper cominciare a dire: siamo stati tutti colpevoli. Almeno questo sarebbe necessario, per una riconciliazione e per un perdono». Arrigo Levi Sb Pblif■ 1 a e a Lo scrittore argentino Ernesto Sabato (Publifoto) Jorge Luis Borges in una caricatura di David Levine (Copyright N.Y. Iteview of Books. Opera Mundi e per l'Italia «La Stampa-)