In una valle felice prima della bufera

In una valle felice prima della bufera RIGONI STERN: QUANDO, NEL GIUGNO DI 40 ANNI FA, DAL CANAVESE PARTIMMO PER LA GUERRA In una valle felice prima della bufera Nei tristi anni che per noi vennero dopo il 10 giugno 1940 qualche volta ci veniva da pensare a un periodo breve e felice trascorso a Campigli»di Val Soana. Si era saliti lassù in due plotoni scelti per il corso rocciatori al comando di un tenente, con un ufficiale medico, due sergenti e quattro istruttori. Il resto del reggimento era sparso negli accantonamenti per i paesi del Canavese; e anche se la bufera della guerra in quella primavera sconvolgeva le contrade d'Europa la nostra giovane età, l'affetto della gente pie* montese con cui si viveva in buona armonia, l'indulgenza degli anziani ufficiali richiamati ci rendeva allegri nell'anima e ci allontanava il ricordo di casa, della guerra che incombeva e delle valli piovose e tristi del Sudtirolo dove il reggimento era stato in guarnigione. Ma in Val Soana era ancora più bello perché appena arrivati fraternizzammo con tutti gli abitanti: con la maestrina, il parroco, le due guardie del Parco, i ragazzi, le donne; e dalla bottegaia-ostessa si poteva comperare tutto quello che ci occorreva dalle sardelle in sale al filo per cucire, dalle lamette per la barba alle cartoline. . La palestra di roccia era appena a monte del paese, sul versante destro della valle; la sveglia non veniva fatta con la tromba ma con il suono delle campane, e un plotone andava in roccia e l'altro in escursione. Nel pomeriggio le parti si invertivano. Dopo il secondo rancio delle diciassette t trenta eravamo tutti stilla piazzetta del paese a giocare: a saltare la corda (faceva molto bene perché rinforzava le dita dei piedi a tenere gli appigli), a rincorrersi, a tirare la fune, a calciare una palla dstracci. Con noi, fino all'ora dcena, giocavano i ragazzi e le ragazze di Campiglia. Dopo itramonto il parroco chiamava due alpini a suonare le campane per il fioretto di maggio, e quasi tutti, allora, soldati e paesani, si andava in chiesa a cantare e pregare. Ma si andava solleciti al fioretto anche perché la popolazione del villaggio era quasi tutta femminile e gli uomini, compreso parroco e guardie del Parco si potevano contare su una mano: tutti gli altri o erano soldati di leva o richiamati al 4" Alpini, ma i più erano a Parigi a fare i vetrai e gli spazzacamini. Ogni sera, poi, prima di andare a dormire si' cantava in coro e a gara tra veneti e lombardi e le ragazze si dividevano tra l'uno e l'altro gruppo mentre le vecchie stavano sugli usci ad ascoltare ma anche a controllare. Tutto era straordinario. 11 pane, anche; non era pagnotta che sapeva di caserma, e quel sapore ci venne poi da sognarlo in Russia e nei Lager: un pane di segale cotto nel forno a legna di Valprato, basso e rotondo, croccante e con la crosta bruna. Quando arrivava portato su dal nostro mulo ne sentivamo il profumo anche se eravamo in palestra di roccia ad arrampicare. Quel pane era felice come il paese, come noi, come tutta la Val Soana; come il ballo della domenica pomeriggio dopo che si aveva fatto il bagno nel torrente gelato e lavata la nostra biancheria sulle pietre levigate, i Ero io che scendevo a Valprato con l'incarico di accompagnare su a Campiglia un vecchio suonatore di fisarmonica di cui non ricordo bene il nome. Forse era il Giaculin d'ia fisa? Camminava lento perché era molto vecchio e io gli portavo con riguardo lo strumento vetusto quanto lui e che quando si sganciava emetteva uno strano lamento. Dove la strada si faceva erta il vecchio si appoggiava sulla mia spalla e al nostro arrivo tutti erano ad aspettarci sulla piazza, lungo la ringhiera del monumento ai caduti. La stanza dell'osteria era già sgombra da sedie e tavoli e si entrava subito a ballare. Forse mancava solamente il parroco. Manfrine, valzer, marce, mazurche, polche, erano questi i balli. Ma personalmente non ero brillante, anzi timido e impaccialo da quando con i chiodi degli scarponi quasi levai un'unghia da un piede della maestrina. Ero invece addetto al suonatore; dovevo raccogliere le cinque lire pattuite per il compenso, farlo mangiare e farlo bere e tenerlo sveglio. Sì, perché ogni tanto sonnecchiava sui tasti e rallentava il ritmo; con la mano, allora, gli davo una scossa al braccio e riprendeva velocità. E con lui i ballerini. Una domenica mi accorsi che quando gli versavo il vino e poi distoglievo lo sguardo per la sala il suo bicchiere subito si vuotava; stetti all'erta e sorpresi il vecchio che con mossa lesta rovesciava il bicchiere dentro la giacca, e osservando ancora potei vedere che nel tascone aveva una bottiglia con un piccolo imbuto: in questo modo si faceva la scorta per berselo poi a casa, con comodo. Passarono troppo in fretta quei giorni spensierati, ma il ricordo dura ancora; e anche il Piano dell'Azaria restò nel ricordo come il luogo più bello della terra: come un posto sognato e non vero dove l'acqua limpida scorreva leggera tra cuscini di fiori, con i larici che rinverdivano lungo i fianchi della valle, con le nubi vaporose e fantastiche dentro un cielo altissimo, e canti di uccelli e occhi di ragazze. Forse tutto era così perché era primavera e noi ancora ragazzi innamorati di fanciulle lontane. Lassù, al Piano dell'Azaria, si andava ogni tre giorni a far legna per la cucina; con la mia squadra e un mulo. Lì, una volta raccogliemmo anche un camoscio che era stato travolto da una slavina e lo mangiammo con la polenta dopo averlo pulito e lasciato un giorno e una notte sotto l'acqua di una piccola rapida. Verso la fine del corso andammo in escursione per le cime, a gruppi di cordate. La base era nel rifugio appartenente al piccolo santuario di San Besso e le mete erano la Rosa dei Banchi, la Torre di Lavina, la Punta Nera e le altre verte là intorno. Quando la sera era bella ci divertivamo ad arrampicare in libera sulla Roccia di San Besso, quel* grande masso carico di leggende sulla via del passaggio tra il Canavese e la valle di Cogne e fatto oggetto di culto dagli antichi abitanti di queste montagne. Fu sulla strada di ritorno da queste escursioni che avvenne la disgrazia. Si camminava in' fila sul pendio erboso a mezzacosta tra la neve sopra e le rocce sotto, e si era particolarmente allegri perché Campiglia era vicina. Un alpino scivolò, scherzosamente lo chiamavamo «Paja», e si lasciò andare lungo il pendio, can-' tando. «Paja! Paja fermati!». Ma all'orlo delle rocce non riuscì a fermarsi e precipitò. Lo raccogliemmo- che era morto e una grande tristezza vi fu in noi e in tutti i paesani di Campiglia. Non ci sembrava vero, ecco, e dentro la chiesetta silenziosa e piena di fiori stemmo tutti a vegliarlo. Venne anche il colonnello Reteuna che comandava il reggimento; corrucciato e con il viso come fosse scolpito nel legno stette per lunghi minuti in posizione di saluto davanti al corpo immoto del nostro compagno. Poi vennero a prenderlo e lo portarono al suo paese che era sulle montagne tra l'Emilia e la Toscana. Ecco, ora Paja è lì con i suoi vecchi nel cimitero del suo' paese, ma quanti di quelli che eravamo a Campiglia di Val Soana in quel maggio del 1940 sono poi restati sui monti dell'Albania o nelle steppe della Russia? Siamo rimasti troppo in pochi a ricordare quel tempo. Il corso rocciatori non arrivò alla fine Ai primi di giugno venne un portaordini in motocicletta e in poche ore e in fretta lasciammo quel paese per andare verso la guerra. Le donne di Campiglia, i ragazzi, il parroco, la maestri-, na, le due guardie del Parco ci accompagnarono un bel po' lungo la strada che scende verso Ronco; a Valprato incontrammo per l'ultima volta il vecchio suonatore di fisarmonica e quando lo perdemmo di vista sentimmo che ci suonava una malinconica canzone. Negli accantonamenti dei paesi canavesani le compagnie avevano già affardellato gli zaini. Incominciammo a piedi a risalire la Valle d'Aosta dove a Aymaville la'notte del 10 giugno sentimmo sparare il cannone. Era nel tempo che le armate di Hitler marciavano su Parigi, che Roosevelt disse «... la mano che brandiva il pugnale ha affondato la lama nella schiena del suo vicino». E che Mussolini spiegava a Badoglio che voleva «qualche migliaio di morti per sedere al tavolo della Pace> Mario Rigoni Stein

Luoghi citati: Albania, Cogne, Emilia, Europa, Parigi, Russia, Toscana, Valle D'aosta