Architetti e pittori per Sua Maestà

Architetti e pittori per Sua Maestà UN CRITICO FRANCESE GIUDICA LE MOSTRE TORINESI SULL'ARTE NEL REGNO SARDO Architetti e pittori per Sua Maestà La mostra che la città di'. Torino ha dedicato alla cultura figurativa negli Stati Sardi, già recensita in questa pagina da Francesco Vincitorio, è stata oggetto di un penetrante e] cordiale articolo di André Chastel, su «Le Monade», che riteniamo utile ripren-, dere. La chiusura della, mostra è stata prorogata ai. 15 settembre. Periodicamente i piemontesi fanno grossi bilanci. Uno fu, nel 1963, quello dell'età barocca. Nella stessa direzione, incredibilmente ampia e dettagliata, una serie di esposizioni si sono aperte a Torino all'Inizio di maggio, per illustrare la fase seguente, cioè il periodo del regno sardo dal 1770 al 1860, che non è certamente altrettanto importante: non ci sono personaggi spettacolari, solo qualche eroe. Ma un quadro completo dell'arte e della cultura del periodo in cui si andava formando, attraverso i sobbalzi della storia europea, la dinamica e piccola potenza. E i risultati non sono indifferenti. Torino è disposta su una grata di strade diritte come le città spagnole del Nuovo Mondo o Le Havre di Auguste Perret. E' l'immortale pianta dell'accampamento romano, a lungo stretta in una cinta di mura fortificate. Verso il 1800 si fanno saltare i bastioni e lo spazio urbano fu esteso attraverso una serie di proposte e di studi esemplari che sono ignorati dalla maggior parte degli storici dell'urbanistica, per la semplice ragione che i dossier non sono quasi mai stati tirati fuori dagli archivi municipali. Circa 500 documenti, soprattutto disegni, sono stati esposti con chiarezza nelle sale (dette) della Promotrice (gli ambienti di esposizione temporanea nati nel 1841, in epoca sarda). Si sarebbe sommersi dalla gran massa di documenti se questi non fossero spesso molto belli e inventivi; assai tipico per l'interesse per la topografia urbana, il grande catasto steso sotto Vittorio Emanuele II. La «verve» degli architetti torinesi è messa in evidenza dal grande numero di progetti per il campanile municipale, la torre della città, prevista nel 1787, dal «congresso» degli edili; tutte le varianti immaginabili per questi quattro ordini che, alla fine, non furono realizzati. In un certo senso, la mole di Antonelli, innalzata a partire dal 1863, è la risposta a questo vecchio dibattito. Nel loro interesse per l'ambiente, questi Sardi hanno l'inquietudine razionale degli immaginativi. Non si dimentica la grazia un po' folle del meraviglioso Guarini, ma in fondo si fa, come ovunque, del neoclassicismo. Quando Waterloo riporta al potere la dinastia, Bonsignore costruisce al di là del Po una rotonda simile al Pantheon, stilizzata in un superbo modello di legno, esposto. / ritratti Per il neogotico, dirò più avanti. Nelle sale vicine sono presentati, sempre partendo dalle stesse fonti inedite, per esempio, gli studi per il tracciato della ferrovia, che muterà ogni cosa, o le passeggiate lungo il fiume. Notevole la precocità della fotografia: Torino si dedica presto al dagherrotipo: ritratto e paesaggio. E naturalmente, 'c'è lo sbocciare delle vedute di montagna, pitture riprese presto dalle litografie, che cessano d'essere insignif icanti quando diventano delle serie. Per esempio il Monte Bianco, dal versante di Chamonix e non da Courmayeur, è rappresentato nel 1803 da De la Rive: una primizia. La piramide bianca, i coni d'ombra delle vallate, incantano i clienti di Linci:, che lavora per le pubblicazioni di Hackert. La montagna entra nel «patrimonio» europeo. Il grande spettacolo è infatti a Palazzo Reale, su tre piani ed in quarantaquattro sale degli appartamenti del XVIII secolo, ridecorati in parte al tempo di Carlo Alberto, che regnò dal 1831 al 1849. E' esposto tutto ciò che appartiene al palazzo (pitture, statue, disegni, libri), che illustra le figure dei principi e le istituzioni piemontesi. Un immenso percorso, per due terzi inedito. Sono stati precisati i legami fra l'attività artistica ed il potere in modo assai piti stretto che nel caso dei Medici del XVI secolo a Firenze o dei Borboni del XVIII a Napoli. Bisognava innanzitutto frugare nei magazzini, negli archivi, ricostruire i fatti attraverso le cronache, i documenti ufficiali, per costruire un'immagine di un periodo senza eroi. Le équipes guidate da Enrico Castelnuovo e Marco Rosei hanno fatto, come si dice, le ricerche «necessarie» sull'età sarda: tutta Torino vi ha partecipato. L'esposizione mostra come si arriva a inquadrare una storia dispersa, ma non vuota — gli italiani hanno sempre molto da dire —, certamente modesta, ma rivalutata dalla voga attuale per gli aspetti «tradizionali» ed accademici del XIX secolo. Le «glorie» antiche, rianimate per l'occasione, sono state abbordate con la tenerezza un po' ironica che si conviene. Bisogna indubbiamente sforzarsi un poco, ma ci attende una acuta «problematica», un po' complicata, è vero, per la distinzione rigorosa di quattro epoche: prima del 1790, prima del 1814, prima del 1831, prima del 1860, entro le quali tutto è ripartito. Qualche tema fra quelli articolati nel catalogo, monumentale ma assai ben fatto, dove tutto è riunito. Innanzi tutto il ritratto di parata: a partire dal gruppo molto ancien regime di Vittorio Amedeo III, glabro e fine, con a fianco la sposa con l'abito a «paniere» blu ed i cinque figli, dei due Dupra nel 1759, la galleria dei principi è completa fino a Vittorio Emanuele II — .quello di Solferino e dell'Unità — trattato bene da Gordigiani nel 1860 e assai meno bene da un anonimo che l'ha dipinto piccolo, tozzo, in borghese, molto poco idealizzato. E' ciò che rende saporiti gli sforzi dell'arte ufficiale, che non trascura la diffusione popolare delle effigi reali tramite la litografia. Si trattava, per la dinastia, di acquistare un prestigio sto-, rico, indispensabile soprattutto a Carlo Alberto che assume la corona nel 1831 per un destino «nazionale». Qui, molte cose si chiariscono grazie al rapporto fra la decorazione murale, rimasta «in loco», e i pezzi riportati ed esposti per ricreare l'atmosfera del tempo. Nel XVIII secolo, prima degli «avvenimenti» che portarono nel regno i francesi, Pécheux, un pittore formatosi a Roma, fu chiamato nel 1778 per organizzare l'accademia, e decorare una serie di sale con allegorie e con scene «all'antica» molto datate. E' un complemento al grande dossier del neoclassico europeo. Mezzo secolo più tardi, nella grande sala detta dei corazzieri, regna la «pittura storica», la più intrepida e copiosa: nella Sede dei crociati lombardi, commissionata all'ihustre milanese Hayez, oltre sessanta figure gesticolano secondo un oscuro copione: questo «pezzo» abilmente orchestrato domina, con la sua «audacia», le numerosissime tavole, risistemate nelle loro sale originarie. Spiace di non poter descrivere questi drammi romantici in immagini, perché ciascuno vale un racconto. Gli autori, Storelli, Podesti, ci ricordano che questa pittura è uno dei piccoli peccati d'Italia. La scultura li accompagna allegramente. Le pittrici Nel settore dell'arte religiosa, bisogna notare il raggruppamento di dieci pale d'altare ordinate dopo il 1770 da un cardinale mecenate per la sua abbazia di Fruttuaria. Un esempio di arte devozionale eclettica. Con la Restaurazione, la scultura prenderà campo, per esempio al momento dell'erezione del santuario della Gran Madre, ma l'episodio più significativo, magistralmente presentato da Enrico Castelnuovo, è l'abbazia di Hautecombe in Savoia: è il Saint-Denis della dinastia e il luogo di un «revival» neogotico straordinario, che l'eccellente mostra del «gotico riscoperto», lo scorso autunno a Parigi, ha avuto torto di trascurare. Il fatto è importante a causa della diffusione del gusto «troubadour» nel regno, e soprattutto per il fatto che le implicazioni erano più politiche che .religiose, o estetiche. Tutto qui concorre a magnificare casa Savoia: la pittura storica ricorda i suoi grandi condottieri, il gotico le sue radici medievali. Il mobilio stesso vi partecipa. Gli sviluppi cosi esplicitati —lo ripetiamo — per la prima volta, sono cadenzati da sale che documentano le istituzioni accademiche, che non furono mai così prospere, le manifatture — ciascun regno ha la sua porcellana, qui Vinovo, Nyon... —, l'archeologia e gli scavi, l'illustrazione popolare: le indimenticabili e toccanti avventure di Fieramosca. C'è> pure un'inattesa sezione dedicata alle donne pittrici: non si può dimenticare lo squisito Pensiero soave di Rosalia Cravosio. Si attende un momento poetico. Esso arriva, in un quadro sempre ristretto ma efficace, con il paesaggio, che in questo regno fu per lungo tempo, sembra, occupazione di aristocratici. Torino accolse, fra i primi emigrati a causa della Rivoluzione, Cesar Van Loo che era un seguace del paesaggio modernizzato di Joseph Vernet. Questa scintilla stimolerà due pittori i cui nomi bisognerà tenere a mente: De Gubernatis (morto nel 1837) e Bagetti (morto nel 1831). Il primo, acquarellista, ha conosciuto gli inglesi, è andato a Parigi: il suo Pont-Neuf del 1805 ha dei bianchi singolari. Il tono è puro, sono più «patetici» i suoi alberi che i suoi orizzonti. Altri dipingono montagne convenzionali o rovine romantiche. Non è il caso di Bagetti, formatosi come «topografo»: pittore di battaglie imperiali, napoleoniche, tratta gli eserciti a volo d'uccello, come formicai sparsi fra i grandi monumenti della terra. Egli mescola, in un modo curioso e rigoroso, un'umanità minuscola con un mondo di vegetazione. Il risultato è abbastanza fantastico. Egli non ebbe alcun seguito. Il paesaggio si accademizza alla Corot con Fontanesi. Dopo il 1860, si ritrova un terreno conosciuto. André Chastel Copyright di «Le Mondo» e por l'Italia de «La Stampo»