Tito, uomo di pace nato dalla guerra di Vittorio Gorresio

Tito, uomo di pace nato dalla guerra LA FIGURA DEL CAPO PARTIGIANO DIVENTATO LEADER DEL NON ALLINEAMENTO Tito, uomo di pace nato dalla guerra Durante la guerra molto mistero circondava Tito, tanto che in Occidente ci si affannava alla scoperta della sua identità. Uno dei più famosi giornalisti americani, Cyril Sulzberger, il 5 dicembre 1944 credette di poter informare i lettori del New York Times Magatine che il personaggio chiamato Tito, comandante in capo dei partigiani jugoslavi allora in lotta contro i tedeschi e gli italiani, gli ustascia croati di Ante Pavelic e i cetnici serbi di Draza Mihajlovic, era una donna. La sola spiegazione accettabile è che le donne partigiane combattenti in Jugoslavia erano molto numerose (oltre il 10 per cento del totale dell'esercito di liberazione) e gloriosamente eroiche. Ce ne fu una, di nome Dragiza, la quale comandava una banda e che per mesi spadroneggiò nella zona tra Hum, Trbinje e Bilece, ed era inafferrabile. Anche ai più remoti presidi italiani in Balcania era giunta la fama di questa leggendaria ragazza che vestiva di verde e galoppava in sella e una giumenta bianca e sapeva sparare, stando in arcione, meglio di un uomo inginocchiato. Probabilmente si esagerava, si attingeva alle fiabe delle corsaresse narentane, ma passarono mesi di angoscia prima che Dragiza fosse catturata e che a Trbinje finalmente la vedessero passare, fiera e bella, a vent'anni, verso la piazza per esservi fucilata. I miti corrono, si allargano trovando nuove versioni sempre più meravigliose, sicché da tutto quel favoleggiare appunto nacque la leggenda, che ha il valore di un possibile simbolo surreale, che Tito stesso fosse una donna. «Perette no, d'altra parte?.., disse allegramente Sulzberger quando gli contestarono il suo errore. La propaganda fascista, più grossolana e più usuale, si limitava a dire che Tito era un uomo di mistero, di cui nessuno poteva conoscere il nome perché era un russo pagato dalla Terza Internazionale per guidare banditi: in realtà era il croato Josip Broz, nato il 7 maggio 1892 nel piccolo villaggio (200 abitanti) di Kumrovets presso Zagorje. Veniva, si, dalla Russia, ma perché vi si era trovato come prigioniero di guerra, sergente maggiore del 25" reggimento Domobran, catturato in uno scontro con la cavalleria circassa. Un colpo di lancia lo aveva passato da parte a parte, mancando per poco di infilzargli il cuore. Sopravvissuto, aveva imparato il russo in un ospedale militare — un vecchio monastero presso Kazan — e era diventato bolscevico, sedotto dalla Rivoluzione d'ottobre. Tornato in Jugoslavia era stato operaio, organizzatore sindacale del metalmeccanici, comunista in clandestinità nel reame reazionario dei Karageorgevic, poi combattente in Spagna, sempre cospiratore e più volte arrestato. Ma normalmente la faceva franca perché dotato del genio della congiura e della vita illegale. Vestiva sempre con molta eleganza, aveva documenti falsi da ingegnere — ingegner Tomanek — e si muoveva con la sicurezza di un borghese per bene. In carcere Ciononostante subì arresti, torture, e sei anni di carcere a Lepoglava; ma imponeva rispetto ai suoi persecutori, come risulta dalla cronaca giudiziaria del Novosti di Zagabria dell'8 novembre 1928: «La sua faccia ha qualcosa dell'acciaio. I suoi occhi grigi guardano molto freddi attraverso le lenti, ma con calma e energia. Il pubblico si è reso conto di quanto egli sia poco disposto ai compromessi, e durante il suo interrogatorio c'è stato un silenzio di morte e tesa attenzione». Aveva infatti detto al tribunale: «Questa corte non rappresenta niente per me. Io non riconosco altra autorità all'infuori di quella del partito comunista, cui sono orgoglioso di appartenere». «Vi ripeto, replicò il presidente, che se non riconoscete l'autorità della corte la vostra pena sarà aggravata». «E'affar vostro, non mio. Io non riconosco voi, né la tirannide die domina questo Paese. Io sono un comunista». La polizia dovette trascinarlo fuori dall'aula perché non insistesse nella propaganda. Ma quando era In circolazione si comportava con ogni opportuna prudenza. Doveva espatriare per andare a combattere in Spagna, e come al solito si era vestito con eleganza, anzi con qualche ricercatezza: «Aveva scarpe marrone di marca inglese lustrate benissimo, un abito inglese di buoìi taglio, bella camicia, bella cravatta, fazzoletto al taschino, mani curate», ricordò un giorno il suo compagno Jurak. Alla frontiera austriaca, sul punto del con¬ trollo dei documenti (aveva un passaporto falso cecoslovacco) pensò bene di prendere sulle ginocchia per farlo saltare a cavalluccio un bambinetto che faceva i capricci. Tito, del resto, amava molto i bambini, gli riusciva facile dedicarglisi, e ne fu premiato. Difatti, il bimbo fece pipi sui pantaloni nuovi del clandestino Josip Broz, e i gendarmi jugoslavi risero tutti divertiti dando solo uno sguardo fuggevolissimo al falso passaporto. i La vera storia di Tito, in ogni modo, comincia al tempo del suo comando della guerra partigiana in Jugoslavia, che fu la vera guerra dei poveri, esemplare, emblematica: «Noi non abbiamo, diceva Tito ai suoi nei consigli di guerra, riserve o depositi nelle retrovie, come ne hanno i nostri nemici. Non abbiamo fabbriche di armi e munizioni, e non dobbiamo dimenticarcene. La quantità delle armi e delle munizioni che potranno essere catturate in una determinata postazione nemica, anclte se priva di una particolare importanza strategica, sarà decisiva'nel giudicare sulla convenienza dell'attacco, nella speranza di procurarci un ricco bottino». Tito non poteva difatti contare su alleati, né occidentali né sovietici. Gli occidentali puntavano piuttosto sul generale Draza Mihajlovic capo dei cetnici serbi, e lo stesso Stalin parteggiava per il giovinetto re Pietro: «Vi prego, scriveva a Tito Stalin, tenete conto del fatto die l'Unione Sovietica ha rapporti col re e con il governo jugoslavo, e che l'opporsi a questi dati di fatto creerebbe nuove difficoltà nelle reIasioni tra l'Unione Sovietica da una parte e la Gran Bretagna e gli Stati Uniti dall'altra. Voi non dovete pensare alla vostra lotta solo dal vostro punto di vista nazionale, ma dal punto di vista internazionale della coalizione britannico-sovietico-americana». Erano giorni in cui le condizioni dei partigiani di Tito erano più che disperate, tanto che Tito supplicava Stalin: ..17 febbraio 1942: chiediamo urgentemente medicine, specialmente siero antitifico. Durante l'offensiva, 160 casi gravi di congelamento e cancrena. Mandateci armi automatiche, munizioni, stivali ed equipaggiamento. Mandate per aereo, e paracadutate a. Zabljack ai piedi del monte Durmitor, nel Montenegro. Qualsiasi cosa ci manderete sarà di grande importanza morale e. materiale. 19 marzo 1942: Siamo in una situazione critica a causa di insufficienza di munizioni. Vi preghiamo di fare tutto il possibile per mandarci materiale militare. 28 marzo 1942: Ora qui ha cominciato ad infierire il tifo. Siamo ancora sema medicinali, molti cadono per assideramento e per fame. Tuttavia nessuno si lamenta. Fate il possibile per inviarci soccorsi». Nessun aiuto Pensando che arrivassero (aveva trasmesso anche le coordinate per i piloti sovietici: 43"8' latitudine Nord, 16W longitudine Est) Tito aveva mandato il suo vec- chio compagno Mosha Pijade sul monte Durmitor per ricevere dagli aeroplani ciò che sperava. Pijade aveva camminato nella neve alta due metri, aveva fatto preparare il terreno per i lanci, aveva aspettato per 37 giorni e 37 notti il momento di accendere i fuochi di segnalazione. Ma il 29 marzo arrivò a Tito la risposta di Stalin: «Tutti gli sforzi sono stati fatti per aiutarvi. Ma le difficoltà tecnidie sono enormi. Voi, purtroppo, non dovete fare assegnamento sui nostri soccorsi. Vi preghiamo di tenerlo presente. Fate tutto il possibile per ottenere armi dal nemico, e fate l'uso più economico delle armi che avete». Era, quest'ultimo, un suggerimento superfluo, per quanto ho già detto dei discorsi di Tito nei consigli di guerra, e Tito infatti lo considerò con un certo umorismo nel trasmettere a Pijade la risposta di Stalin: «Egli ci prega di fare del nostro meglio per prendere le munizioni al nemico e di usare con economia le armi die già abbiamo. Come vedi, ci aiuterà con piacere, non appena gli sarà possibile. Ma, per il momento e per qualche tempo ancora, non è necessario che tu faccia il tuo servizio notturno, e dà pure agli uomini la spiegazione che crederai migliore». Non so che cosa sia andato allora a raccontare il vecchio Pijade ai suoi uomini, ma ci rimangono testimonianze popolari di come la delusione per il mancato aiuto sovietico fosse tradotta dai partigiani di Tito in forme di beffa orgogliosa. Si cominciò a diffondere una poesiola che dice: «I fili vibrano, i telefoni squillano i per recare un messaggio di Stalin i "Valorosi compagni, non temete, i la mia armata rossa giungerà presto!" i Ma noi rispondiamo per lettera: i "Grazie . non conosciamo la paura!"». La sua guerra La grandezza di -Tito sta in questo, nell'avere vinto da solo la sua guerra, nell'essere stato il solo a liberare il suo Paese da nazisti e fascisti senza ricorrere agli eserciti dell'alleanza occidentale né all'armata róssa. Venne a trovarsi, finita la guerra, veramente padrone in casa propria, senza doveri di gratitudine o di sudditanza verso nessuno, potendo fare sempre assegnamento sulle virtù guerriere e libertarie del suo ammirevole popolo jugoslavo. Non era cosa che Stalin gli potesse perdonare, e difatti alla fine di maggio del 1945. il grande dittatore scrisse a Tito in tono ammonitore e minaccioso che i meriti dei partiti comunisti francese ed italiano erano stati più grandi di quelli del partito jugoslavo: «Tutt'alpiù, concludeva la lettera di Stalin, posso rimpiangere die l'armata rossa non sia stata in grado, per motivi indipendenti dalla sua volontà, di portare ai compagni francesi e italiani gli stessi aiuti che ita fornito ai jugoslavi». Era quasi un insulto, visto clie i jugoslavi si erano liberati da soli, e in questo insulto è da vedere l'origine della grande crisi di tre anni dopo — giugno-luglio del 1948 — quando in maniera drammatica furono rotti i rapporti fra Jugoslavia e Urss. Era una scomunica latae sententiae, speciali modo riservata alla Santa Sede di Mosca. Tito mostrò dì non volere darsene per inteso. Ricordo un suo ricevimento nella sa- ' la rotonda di palazzo Obrenovic di Belgrado, che oggi è la sede del consiglio esecutivo federale, il 29 novembre 1948, giorno della festa nazionale jugoslava; arrivò Tito e disse con un largo gesto della mano in segno di saluto: «Ma qui ci si diverte poco e voi avete l'aria triste: mangiate, signori, bevete e state allegri». La ricorrenza della festa nazionale veniva a cadere quell'anno in giorni inquieti, ma Tito ed i suoi uomini facevano gli onori di casa come se niente li rendesse preoccupati. Si era lietamente sorpresi di vedersi accolti con la gentilezza ospitale e premurosa dei grandi signori. Tito personalmente, robusto e florido, abbronzato e splendente in una uniforme militare oro rossa e turchina, agli ambasciatori stranieri parlava solo di caccia. Pareva esserne tanto interessato che un diplomatico belga pensò bene di rappresentare con tutte le risorse della sua mimica la scena di un cacciatore che abbatte una fiera. Tito rideva molto compiacendosene, e il decano del corpo diplomatico accreditato in Jugoslavia, l'ambasciatore del Brasile Ribeiro Couto, ne prese tanto coraggio da far l'atto di audacia di disapprovare con una certa violenza comica che Tito fumasse, come egli usava, la sigaretta infilata in un bocchino a gomito, a forma dì pipa. Tolse la sigaretta infilata verticalmente nel bocchino, la gettò con disgusto e riuscì a persuadere il maresciallo ad accettare, invece, un grosso sigaro del suo Paese. Con altrettanto disgusto, visibilissimo, Tito acconsenti a fumarlo. Alle sue spalle, la seconda moglie, Jovanka. fingeva graziosamente un grande orrore. Alla frontiera stava l'armata rossa, ma come ai tempi della guerra di liberazione i jugoslavi erano pronti a spedire una lettera: «Grazie, non conosciamo lapaura». II maresciallo Tito in una Itilo di alcuni anni la con la moglie Jovanka Vittorio Gorresio