Il cinema affronta il salto nel nuovo di Stefano Reggiani

Il cinema affronta il salto nel nuovo DOPO IL FESTIVAL DI CANNES, BILANCIO CON DISAGIO Il cinema affronta il salto nel nuovo dal nostro inviato speciale CANNES — II cinema sta aspettando qualcosa, forse una nuova regola del gioco, ma intanto ì giocatori vanno avanti per azzardo, incerti tra la pigrizia del consueto e il coraggio delle ferite comuni, dei nostri tempi distruttivi. Si parte da Cannes, concluso il Festival, con un doppio disagio, appena attenua¬ to e come messo in ombra dal divertimento conclusivo, dalla spartizione dei premi in briciole per tutti, dalle liti nazionalistiche e industriali, dalle intemperanze del presidente Kirk Douglas (mi dimetto, non mi dimetto, esigo la Palma a Bob Fosse, eccetera), dai geniali contorcimenti per dare il tradizionale dovuto al cinema italiano, pescan¬ do tra premi inventati e attori francesi doppiati. Il primo disagio riguarda i temi ricorrenti dei film in concorso, fondati sulla malattia, sulla morte, sul sentimento della distruzione, sul rischio di vivere. Mai prima il cinema era stato così esplicito e così concorde nei vari Paesi. Pensiamo al volto affilato dal male, reso quasi fragile come un respiro di capelli bianchi, del regista Nicholas Ray che ha affidato volutamente al tedesco Wim Wenders le sue ultime giornate, le ultime ore. Quanta dignità e quanta fierezza in Ray, una forma di coraggio quasi didattico; ma c'è da dubitare che qualche distributore vorrà mai proporre nelle sale pubbliche un tema censurato anche nei discorsi comuni, rischiando l'accusa di voler far spettacolo con la morte. Eppure anche il vincitore ex aequo della Palma d'Oro, AH that jazz dell'americano Bob Fosse è un musical su un uomo che agonizza, i balletti si alternano alle operazioni a cuore aperto. E non c'è il lieto fine, il protagonista muore e la sua morte viene persino esibita. AH that jazz è considerato un film da grande pubblico. Sta cambiando il gusto, è cresciuta la forza d'animo, ci stiamo abituando a uno spettacolo dove la fine e il divertimento coincidono? Being there, «Oltre il giardino», è un altro film, non premiato, che potrà avere grande sue- cesso; ma il protagonista positivo è un pazzo angelico, come nei film prima della guerra, e i personaggi veri sono un grande industriale moribondo e un presidente degli Stati Uniti tremebondo. Ci sarà poi davvero molto da ridere? Capiremo perché rìdiamo? Il secondo disagio riguarda il cinema stesso, come industria e mercato. Il coraggio dei temi e la disperazione degli argomenti, soprattutto una certa stanchezza venuta dall'America, un segnale di riflessione clie coinvolge gli Stati Uniti, annunciano che il cinema sta affrontando un'altra rivoluzione come quella che lo oppose e poi integrò alla televisione. In Italia questa prima fase della lotta non è ancora conclusa, resta sospeso e sema legge l'universo delle tv private; ma il nostro Paese è ancora primo in Europa per numero di spettatori nelle sale pubbliche. In Germania, dove un cinema eccellente nasce quasi senza spettatori nelle sale tradizionali, in Inghilterra decaduta dagli antichi trionfi, nella stessa Francia, dove il mercato è solidamente diviso fra tre gruppi di produttori e distributori, la seconda rivoluzione trova più pronti gli studiosi e gli stessi industriali. Per dirla col Monde stiamo assistendo alla nascita di un grande «club audiovisuale», cioè a un tipo di industria, produttiva e distributiva, nella quale il cinema rappresenta solo una parte e le sale pubbliche solo un ramo di un albero più folto che comprende i videodischi, le videocassette, la televisione per satellite, la vendita di film per cavo. In Francia, come s'è constatato a Cannes, hanno quel tipo di entusiasmo volontaristico che dovrebbe costituire per i produttori privati «il metodo classico dell'audacia capitalistica». Il presidente della Gaumont (che a Cannes era direttamente interessata a sei film in concorso) è fiducioso, si cambieranno gli strumenti, non si perderanno le conquiste: «I prodotti culturali hanno vita lunga. Possedere lo stock dei film di Bresson, per esempio, vale di più che avere in magazzino tutti i film di Lamoureux. Le videocassette preferiranno sempre i capolavori». Chissà, bisognerebbe anche mettersi d'accordo sul metodo per distinguere i capolavori e sulle tecniche per assicurare l'affluenza degli spettatori nelle sale pubbliche. In Francia giurano sulla ristrutturazione e la stanno facendo, tante sale piccole e medie di proprietà dei produttori o dei distributori. In Italia, dove gli esercenti costituiscono la voce più attenta e trepidante nella crisi, capita che qualche sala, vuota a metà pomeriggio, venga chiusa dal proprietario che mette in libertà il personale. Queste piccole e polemiche serrate segnalano anche da noi l'avvento dell'altra industria, del club audiovisuale? Per quali nuove vie sarà appagata la crescente fame di cinema, che le tv private italiane testimoniano? Il doppio disagio di Cannes, di temi e di strutture, sembra bene in carattere con la crisi generale, ma non siamo al «salto nel vuoto», magari soltanto al «salto nel nuovo». Come Mastroianni nella Città delle donne, dopo l'incubo vediamo una luce in fondo al tunnel. Non potremo più essere maschilisti alla vecchia maniera, cambieremo metodi, ma, insomma, faremo sempre l'amore. Il presidente della Gaumont, che è pure un poeta, ha tradotto questo concetto per l'industria: «Anche nel cinema la cultura è il contrario della violenza, la fine del modello maschile, la femminilizzazione. John Wayne è morto, evviva Woody Alien». Si capisce che, nell'attesa di tanti Woody Alien europei, gli abituali generi del nostro divertimento, come la commedia italiana, abbiano una crisi d'identità, diventino filosofia imbarazzante come nella Terrazza o malinconia di vecchi copioni come in Sono fotogenico. C'è una perversione conturbante dei generi, anche se Scola e Risi (questo valga d'avviso) sono stati ritenuti gli autori più allegri e brillanti di tutto il Festival. Stefano Reggiani La scena finale di «AH that jazz» vincitore ex aequo