Il passo di Monsieur Teste di Franco Lucentini

Il passo di Monsieur Teste L'AGENDA DI FRUTTERÒ & LUCENTINI Il passo di Monsieur Teste (Valéry, eroe della lucidità «in un'era bassamente romantica») «Non l'ho mai visto che di notte. Una volta in una specie di bordello, spesso a teatro. Mi è stato detto che viveva di modeste operazioni settimanali di Borsa. Mangiava in un piccolo ristorante della me Vivienne... Talvolta si concedeva altrove un pasto lento e fine... Aveva forse quaranl'anni. La sua parola era straordinariamente rapida e la voce era sorda... Aveva spalle dall'aria militare e il suo passo era d'una sorprendente regolarità. Quando parlava non alzava mai né un dito né un braccio: aveva ucciso la marionetta. Non sorrideva, non diceva né buongiorno né buonasera... Non aveva opinioni... Non rideva mai, e mai c'era un'aria corrucciata sul suo viso. Odiava la malinconia... Un gran numero di parole erano escluse dai suoi discorsi... A ciò che diceva, non c'era nulla da rispondere». In piccola tiratura, secondo il suo stile, il vecchio Teste ritorna; dietro una discreta, sfumata copertina, eccolo riapparire, smilzo, cristallino e indistruttibile, malgrado tutto. Da oltre dieci anni mancava dalle librerie, dalle strade delle nostre città gremite di marionette, e noi avevamo quasi perduto la speranza di rivederlo. E' pur vero che dal 1894, anno in cui cominciò a circolare, era stato accantonato, ignorato, sepolto, dimenticato, dato permorto Dio sa quante volte. Ma questa volta era peggio, questa volta pareva proprio finito, fuori gioco. Tarzan culturali, stereo-filosofi, pensatori a gas liquido, ideologi a schiuma frenata, affollavano come mai prima le piazze, i teatri, le aule, gli scaffali; non c'era più posto per uno spillo. Difficile mito E invece, riecco Teste, col suo spillo di platino. Lo ristampa Il Saggiatore (Paul Valéry: Monsieur Teste, introduzione di Giorgio Agamben) per inaugurare la nuova serie delle «Silerchie». Non si sa, francamente, quale sorte meriti il volumetto. Forse sarebbe prudente tacerne, tenere la cosa il più possibile segreta. La volgarità, la spudoratezza, il barbarico attivismo in cui è caduta la repubblica delle arti e delle lettere, autorizzano le ipotesi peggiori, non esclusa quella di un subitaneo revival di massa. Già mezzo secolo fa, Valéry notava che certa gente avrebbe avuto il dovere di sentirsi a disagio con lui, e si stupiva che ciò non accadesse. Ma al punto in cui siamo, una qualsiasi giunta comunale può decidere di organizzare le 24 ore di Monsieur Teste con spaghettata di mezzanotte, o una qualsiasi casa di produzione può metter su un Monsieur Teste (Jean Paul Belmondo') in dodici puntate televisive. Nulla ferma, nulla intimorisce i bestiali macinatoti e insaccatoti, così spensieratamente al di sotto di qualunque disagio. Ma i nostri sono forse timori eccessivi. Teste non fu mai un eroe popolare, un mito di facile accesso, neppure quando Valéry era vivo. Quando morì, nel 1945, Borges scrisse; «Valéry ha creato Edmond Teste: questo personaggio sarebbe uno dei miti del nostro secolo se tutti, intimamente, non lo giudicassero un mero Doppelgttnger di Valéry. Per noi, Valéry è Edmond Teste». Oggi tuttavia l'identità fra Teste e il suo autore appare un accidente lontano, un intralcio da poco. Su altri scimmiottabili eroi della letteratura, da Werther a Des Esseintes, da D'Annunzio a Hemingway, Teste ha semmai lo svantaggio di essere un «modello» tutto interiore, d'apparenza fanaticamente qualunque («analogo ali punto qualsiasi dei teoremi»), che in luogo delle armi, degli amori, dei profumi, segue la scoscesa e concentrica disciplina dell'intelligenza. Vivono ancora in Italia, a Parigi, a Londra, persone che ebbero occasione di conoscerlo e che hanno conservato di lui un'immagine di eleganza, affabilità, amichevole semplicità, perfetta cortesia mondana. Valéry riceveva e vedeva molta gente, si prestava blandamente alle allocuzioni celebrative, alle inaugurazioni, ai discorsi di circostanza. Non rifiutò il seggio, la feluca, lo spadino dell'Accademia di Francia, né i divani dei salons alla moda. Ma di lui si disse anche che era non-umano, di ghiaccio, un Robespierre letterario, un asceta, un mostro. André Gide, che lo frequentava, e ammirava, dai tempi dell'adolescenza, ce ne lascia un ritratto allarmante. Il suo Journal abbonda di annotazioni di questo tenore: «Paul m'invita a cena. Rientrato tardissimo, esausto». «Pomeriggio con P.V. Lunga conversazione, che mi lascia distrutto». «Grande piacere nel rivedere V., per due ore, fra un treno e l'altro. Ma riparto affranto, la testa in fiamme». Lo charme leggendario di Valéry non era che un guscio, un impermeabile gettato con negligenza sulle spalle, un volto preparato «per incontrare i volti che s'incontrano». Dietro, e i suoi intimi lo sapevano bene, non era mai assente un profilo d'acciaio, un'ombra senza sorriso, un Mr. Hyde, un doppio, un occhiuto, affilato, implacabile testimone. Monsieur Teste, appunto. Che cos'è Monsieur Teste, questo arduo libretto? E' la storia di un incontro, di una se¬ rata a teatro, di una passeggiata fino a un alloggio «puro e banale», di una breve conversazione. Poche pagine, pochi segni, nettissimi e infinitamente sfuggenti, per circoscrivere ciò che il giovane Valéry voleva essere e si sforzò di essere per tutta la vita. {«Teste è il mio spauracchio, scrisse anni dopo, quando mi comporto male, penso a lui»). Una freccia direzionale. Un limite. L'abbozzo di una geometria. O anche, per usare un termine del 1894, un ideale. Il «privato» Valéry avrebbe potuto essere un grande scienziato, un grande scacchista, un grande banchiere, un grande musicista. Scelse invece, come terreno di concentrazione assoluta, se stesso. Non certo alla maniera dei romantici, spinto cioè da una concezione pettoruta, esaltata, del proprio «io». Al contrario, questo supremo individualista si trattò sempre come un «campione» di laboratorio, che il caso gli aveva messo a disposizione per le sue analisi. «Bisogna entrare in se stessi armati fino ai denti» dice Teste. Siamo agli antipodi delle «crisi d'identità» oggi dilaganti fra casalinghe inquiete, stu denti fuoricorso, professionisti affermati e rivoluzionari in ritirata. Il «privato» di Valéry è nudo, austero, qualcosa tra la cella di un certosino e la camera di decompressione di un'astronave. Egli ci si muoveva come un estraneo: della propria mente, coscienza, sensibilità, gl'interessava il funzionamento, la subatomica, incessante attività, i salti, gli scarti, i vuoti, le croste, le crepe, le esplosioni. Si definiva un Robinson dell'intelletto: era capitato su quell'isola e si proponeva di esplorarla, catalogarla, coltivarla, dominarla da cima a fondo, nei minimi anfratti. Monsieur Teste si può leggere come il suo programma di naufrago che decide di rimboccarsi le maniche e arrangiarsi con quel che ha sottomano. Non è, ovviamente, un programma imitabile, né si può pensare di ripetere quell'esperimento assillante e grandioso sulle nostre povere isole da cartolina illustrata. Mistico senza Dio, Narciso armato di microscopio, detective metafisico derivato «da Edgar Aliati Poe e dall'inconcepibile Dio dei teologi», Valéry non rappresenta certo ciò che i ciarlatani dell'impegno ancora chiamano «una valida alternativa». Pure, fu testimone dell'affaire Dreyfus, di due guerre mondiali, del nazismo, dello stalinismo; patì come tutti l'idiozia e la brutalità dei tempi; ebbe commercio col secolo; fu tentato, come tutti, di lasciarsi andare, di cedere alla facilità, al vago, al viscerale, all'ipnotizzante, all'entusiasmante. «Certuni mi hanno fatto dei complimenti sulla mia "intelligenza", scrisse. Non sapete quanto costi una cosa simile; quanto poco ci si guadagni. Un pessimo affare». Avrebbe potuto essere un qualsiasi Sartre, un qualsiasi Marcuse, uno qualsiasi dei mille chiacchieroni assetati di proseliti. Preferì, con sdegnoso rigore, «proporre agli uomini la lucidità in un'era bassamente romantica». Egli ci lascia, continua Borges, «il simbolo di un uomo infinitamente sensibile a ogni fatto, e per il quale ogni fatto è uno stimolo che può suscitare una serie infinita di pensieri... Di un uomo che, in un secolo che adora gl'idoli caotici del sangue, della terra e della passione, preferì sempre i lucidi piaceri del pensiero e le segrete avventure dell'ordine». Monsieur Teste non è un simbolo comodo, un eroe trionfante che si possa seguire incolonnati, cantando slogan. E' stato, in un certo senso, sempre sconfitto. Ma a lunghi intervalli, quando gli urlanti marciapiedi si sono per un momento svuotati, è sempre possibile, per chi lo voglia, percepire il suo passo notturno, regolare, imperturbabilmente solitario. Carlo Frutterò Franco Lucentini

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