Il dialogo impossibile fra Tito e De Gasperi

Il dialogo impossibile fra Tito e De Gasperi Il dialogo impossibile fra Tito e De Gasperi (Un triestino ricorda gli anni diffìcili Italia-Jugoslavia) E' perfettamente inutile riaffermare, con molti storici e politici, che Tito è stato il più grande statista di quest'ultimo mezzo secolo: più grande di Churchill e di Stalin. Fu l'uomo che, dal 1943 ad oggi, seppe mantenere non allineato, tra 350 milioni di russi e loro satelliti e quasi mezzo miliardo di americani e loro alleati, un Paese che aveva, allora, sedici milioni di abitanti, stremato dalla guerra, devastato dai tedeschi, povero, diviso da odii tra le innumerevoli fazioni interne di ogni tipo. Forse non e inutile ricordare un fatto — credo a quasi tutti ignoto — che serve ad illustrare la sensibilità politica più unica che rara di cui era dotato il Maresciallo di Jugoslavia. A tutti è noto come il più spinoso problema della politica estera italiana dell'ultimo dopoguerra fosse costituito dalla questione dell'intera Venezia Giulia, prima, e di Trieste poi. Ora, sia a noi italiani che all'intero mondo occidentale non fu mai chiaro il fatto che la difficoltà estrema di giungere ad un accordo diretto tra l'Italia e la Jugoslavia era data anche dalla profonda sfiducia reciproca, che avvelenava le relazioni fra i due Paesi. Noi eravamo convinti che gli jugoslavi, non ancora soddisfatti di quel che avevano ottenuto dall'Italia vinta, volessero annettersi ulteriori territori italiani; gli jugoslavi erano sinceramente convinti che, piano piano e con l'aiuto degli Occidentali, noi aspirassimo a riprenderci quanto avevamo perduto, giù giù, fino a Zara. I non pochi passi condotti per arrivare ad una intesa diretta fallirono, certamente, anche se non solamente, per questa ragione. Tito riuscì a percepire benissimo questa situazione psicologica e capì che, per superarla, poteva esistere una sola ivia: quella di un suo incontro personale coti De Gasperi. Conoscendo l'uomo che era il suo principale antagonista nella grande disputa ed il supremo responsabile della politica italiana, Tito avrebbe voluto sincerarsi sui nostri veri sentimenti nei riguardi dèi suo Paese e sull'esistenza o l'inesistenza di nostre mire imperialistiche. Il Maresciallo di Jugoslavia fece conoscere quattro o cinque volte, per via diretta od indiretta, questo suo deside-i rio. Una o due volte lo disse al nostro ministro a Belgrado. Certamente, nell'occasione della visita di congedo di quest'ultimo, espresse il ricordato desiderio, aggiungendo di comprendere benissimo come esso non fosse realizzabile, per ovvie ragioni politiche, in quel momento. Successivamente un discorso in merito fu rivolto dall'ambasciatore jugoslavo a Washington, Vladimir Popovich, all'ambasciatore d'Italia, Alberto Tarchiani. Consultatosi con Roma e anche con il Dipartimento di Stato, il nostro rappresentante fece sapere che il momento politico non era ritenuto favorevole. Anche Eden ci fece conoscere questo desiderio di Tito, avvertendo che ci voleva soltanto far presente la sua esistenza e non condurre verso di noi un passo diplomatico perché esso fosse soddisfatto. L'ultima volta, infine, l'incontro tra Tito e De Gasperi fu proposto durante alcuni tentativi di accordi diretti tra l'Italia e la Jugoslavia, che ebbero luogo nel maggio 1953, ed ai quali partecipai io stesso. Il consigliere commerciale della legazione della vicina repubblica, a Roma, insìstette ariche con me perché appoggiassi tale richiesta, che, del resto, vedevo con molto favore, conoscendo la psicologia degli slavi, i quali diventano subito sinceri, se si convincono che il loro interlocutore è sincero. Quando perorai l'incontro mi fu, però, osservato dal nostro' ministro degli Esteri — e certamente non a torto — che gli incontri al vertice possonoaver luogo solo dopo che le Cancellerie abbiano posto l'ultima virgola ad accordi già conclusi. Si attribuiscono, da molti, ad insensibilità morale e politica di Tito gli errori e gli orrori che furono commessi durante l'occupazione jugoslava di Trieste, nel maggio 1945. Essi non sono frutto di fantasia, ma ben documentati da illustri testimoni stranieri. Sono stato sempre convinto che tali fatti non furono il fruttò di precise direttive provenienti dal capo supremo jugoslavo, ma lo sfogo di odii generali e locali accumulati prima della guerra e durante il conflitto. E' impossibile che, con la sua tanto acuta sensibilità politica, Tito non si fosse reso conto che il contegno tenuto a Trieste dalle sue truppe verso gli italiani gli sarebbe stato controproducente — come lo fu — nei riguardi degli Occidentali e che, se la città fosse rimasta nelle sue mani, in seguito a quel comportamento, quattro quinti della popolazione sarebbero emigrati in Italia, slavi democratici compresi. Con chi avrebbe sostituito duecentomila esuli? Difficile fu la sostituzione dei ventottomila abitanti che, su poco più di trentamila, lasciarono Pola. A che sarebbe servita una Trieste vuota? Il Maresciallo era un politico troppo fine per non capire una cosi chiara evidenza. Gli errori e gli orrori dovettero venire dal basso perché il Capo era troppo abile per commettere un cosi grave errore. Infatti, per undici anni, secondo l'ambasciatore Zoppi, allora segretario generale del nostro ministero degli Esteri, «Tito ha agito, per parte sua, con una abilità ammirevole, graduando i tempi delle sue decisioni e i tempi del suo riavvicinamento all'Occidente, in modo da fare il passo più conveniente nel momento per lui più redditizio e rinnovando tale tattica di anno in anno, di mese in mese». Diego de Castro

Persone citate: Alberto Tarchiani, Churchill, De Gasperi, Diego De Castro, Stalin, Vladimir Popovich