La risposta di Tito: autogestione di Frane Barbieri

La risposta di Tito: autogestione IL FURORE DI STALIN RAFFORZO' LO SCISMA DELLA JUGOSLAVIA La risposta di Tito: autogestione Il Paese era isolato e premuto da Oriente, sospetto all'Occidente, a corto di materie prime - «Resisteranno tre mesi», si disse al Cominform - «Tenete duro», sussurrò Dimitrov a Gilas - Rifacendosi a un testo di Lenin censurato in Urss, il maresciallo avviava lo Stato a un modello più democratico, che avrebbe trasferito i suoi poteri a varie forme di autogoverno Concludiamo la ricostruzione, attraverso testimonianze e documenti inediti o poco noti, dei fatti che portarono nel 1948 alla rottura tra Jugoslavia e Urss. I due precedenti articoli sull'ultimatum di Stalin la drammatica risposta di Tito e la scomunica di Belgrado da parte del tribunale del Cominform sono apparsi in questa pagina il 6 e il 7 maggio. «In quei giorni, ricordo il marescia.Uo Tito, ripetevo varie volte che saremmo riusciti a vincere se avessimo saputo chiarire a noi stessi le ragioni del conflitto con l'Urss, se questo processo si fosse sviluppato in modo giusto fra le masse jugoslave. Si doveva stare bene attenti e tenere in conto le illusioni sull'Urss, che esistevano e avevano lasciato tracce fra la nostra gente. Non ci si poteva abbandonare ai rancori né rispondere soltanto con le parole dure alle menzogne che ci venivano dall'Urss. Occorreva prender tempo, aspettando che lo stesso Stalin nelle sue azioni contro la Jugoslavia facesse tali cose da far dire alle masse jugoslave: "Abbasso Stalin", e non incominciare noi stessi, nell'impulso di collera, a lanciare slmili parole d'ordine. La prassi è la migliore maestra della vita». «Quello che Stalin nel 1948 aveva annunciato, lo avrebbe applicato ben presto con una serie di atti brutali. Da quell'epoca, almeno per quanto riguarda la gente del nostro Paese, racconta Tito, per noi non sono esstiti grossi problemi politici nei confronti dell'Urss. A ogni nostro uomo era diventato chiaro in che consisteva la sostanza del conflitto. La gente si era liberata dalle illusioni, ma allo stesso tempo non aveva perduto la fede nel socialismo. Il loro stesso Paese, malgrado tutte le difficoltà, aveva offerto loro l'esempio che anche un piccolo popolo poteva seguire la propria strada nella costruzione socialista». La prima sconfitta Tito l'aveva inferta a Stalin sul fronte interno. Le 'forse sane» del partito jugoslavo noìi accolsero l'appello del Cominform alla rivolta e non offrirono il pretesto di un intervento. Incominciò allora la guerra esterna: blocco economico completo, pressione politica, incidenti di frontiera. ..Resisteranno tre mesi», preconizzò Judìn, capo redattore del giornale del Cominform (che quasi per scherzo si chiamava: Per la pace duratura e per la democrazia popolare, nel trasferire la redazione da Belgrado a Praga. Non avvenendo il crollo, incominciò l'isterismo. Anna Pauker tuonava a Bucarest: «La liquidazione di quel regime è una questione di vita o di morte». Poiché la Jugoslavia non vacillava, nacque in Stalin il sospetto che tra gli ac-, cusatori potessero aversi dei tentennamenti. Di passaggio da Belgrado, il vecchio Dimitrov sussurrò a Gilas che era venu to a salutarlo alla stazione: «Tenete duro!». Si iniziò in tutti i Paesi socialisti la serie, di processi ai quali soccombereranno anche alcuni che avevano firmato la risoluzione del Cominform di Bucarest. Furono fucilati o impiccati: Rajk a Budapest, Kostov a Sofia, Slansky a Praga, Dzo- dze a Tirana, Furono spodestati Gomulka a Varsavia e la stessa Pauker a Bucarest. L'accusa per tutti fu quella di «titoismo». Gli scopi erano due: l'intimidazione, per bloccare prima che nascessero tutte le tendenze autonomiste nei Paesi- socialisti, e poi creare l'impressione che la Jugoslavia fosse diventata per i Paesi socialisti un pericolo tale da giustificare anclie un intervento. Stalin premeva, però non interveniva. Per il momento le spiegazioni sono tre. Prima: nella Jugoslavia non era avvenuta la sommossa delle «forze sane», che Stalin pensava scontata e aspettava come pretesto di intervento. Seconda: avendo perduto questa occasione (e quindi tempo), Stalin, maestro di equilibri, aveva giudicato che la sfida jugoslava fosse già diventata un fatto internazionale tale da minacciare l'equilibrio europeo nel caso di un intervento armato, dato che gli jugoslavi erano pronti a resistere anche con le armi e per lungo tempo. Terza: rimaneva la speranza che la Jugoslavia cedesse per asfissia a causa dell'isolamento economico e politico. C'è ancora da spiegare come la Jugoslavia abbia potuto resistere, perché il nocciolo sta qui nella scelta e nella sfida di Tito, non tanto negli errori di Stalin. Il conflitto era tenuto segreto anche in Jugoslavia fino alla pubblicazione della risoluzione del Cominform. Anclte le lettere di Stalin a Tito erano a conoscenza soltanto dei membri del Comitato Centrale. Tutto fu pubblicato sulla stampa jugosla- ve soltanto il 30 giugno: lettere di Stalin e Molotov, risposte di Tito e Kardelj. l'atto di scomunica delle assise di Bucarest e il rifiuto dell'imposizione deciso dal C.C. jugoslavo. Fino a oggi i partiti del Cominform non hanno mai reso pubbliche le risposte jugoslave. Addirittura una recente raccolta dei documenti del movimento comunista, uscita a Budapest, pur pubblicando tutti gli atti de! Cominform. dalla sua fondasione allo scioglimento, omette tutti i documenti riguardanti la scomunica di Tito. Nella primavera del 1948 si sapeva a livelli medi che con i russi c'era qualclie problema. Si sapeva per esempio che gli specialisti sovietici parlavano male del governo jugoslavo e che a Mosca erano scontenti per il fatto che a Belgrado si accoglievano con freddezza lepressanti richieste di Mosca per la creazione in Jugoslavia di grandi Compagnie sovietico-jugoslave nei settori chiave dell'economia. Nessuno però sospettava che i dissidi /ossero arrivati a un punto cosi critico. Poi venne il risveglio. Nella sua lettera a Tito. Stalin asseriva che i «meriti dei partiti polacco, cecoslovacco, ungherese, romeno, bulgaro e albanese non erano per niente inferiori ai meriti del partito jugoslavo e se i successi di alcuni partiti occidentali non erano uguali a quelli jugoslavi, si doveva soltanto al fatto che l'Armata sovietica non aveva potuto prestar loro quell'aiuto che aveva prestato al partito jugoslavo nel momento in cui il movimento di liberazione nella Jugoslavia era in piena crisi, anzi disperso». A quasi un milione di combattenti, quanti ne annoverava l'esercito di Tito nella fase finale della guerra, che avevano liberato it Paese da soli si diceva dunque che non avevano liberato niente, che la lotta di liberazione non c'era stata né tantomeno la rivoluzione. Era un'imposizione strafottente e inaccettabile. Stalin mentiva e non credeva più nelle rivoluzioni. Era il crollo di un mito. Isolato e premuto da Oriente, guardato con sospetto da Occidente, a corto di tutto il necessario, il Paese rischiava di spingersi verso un sistema più autoritario, più forte, per poter resistere. Tito però aveva subito intuito che l'unica forza che restava al Paese era proprio quella che Stalin aveva calcolato male: la forza e l'orgoglio di un popolo forgiati nel crogiuolo dell'insurrezione e di una lunga guerra. Cosi nei momenti più duri del conflitto, dalla sfida con Stalin scaturì, nell'evoluzione della Jugoslavia, non un sistema più rigido e autoritario, ma un sistema più decisamente avviato alla ricerca di un modello nuovo aperto e democratico, tendente a evitare le devianti forme autocratiche e a affermare i diritti della «base» nella gestione delie cose pubbliche. Il primo libro suggerito alle cellule del partito per essere studiato è stato curiosamente un libretto meno conosciuto di Lenin: Stato e rivoluzione i Stalin lo a ve va tolto dalla circolazione). Alla vigilia dell'ottobre russo, Lenin nel saggio metteva in guardia contro una possibile involuzione della nuova società, per eccesso di statalizzazione, e insisteva che, compiuta la rivoluzione, il nuovo Stato avrebbe dovuto subito incominciare a deperire o autoestinguersi trasferendo i suoi poteri a varie forme di autogoverno. Lenin non aveva messo in atto queste sue idee e non era tornato sull'argomento (o almeno non ne ha avuto tempo). Stalin le censurò. Gli jugoslavi invece, scavando in quella direzione, cercarono prima di tutto le ragioni dell'attacco del Paese della prima rivoluzione alla Jugoslavia che pure è stata la seconda nazione del mondo a realizzarla. Poi, identificate le radici del sopruso stalinista, appunto in quella deviazione di statalismo autoritario, si misero a cercare le formule per evitarla a loro volta. Al quinto congresso del partito, convocato dalla stessa riunione del C.C.. che decise di non inviare una delegazione alla Conferenza del Cominform, ci si avviava già verso l'autogestione. Era una scelta con cui «all'alienazione dei diritti dell'operaio, materiali e sociali, da parte dello Stato», verificatasi negli altri Paesi socialisti, si sostituiva il diritto dell'operaio di disporre e gestire direttamente il «plus lavoro» a tutti ì livelli tramite gli organi di autogestione. Sì trattava di una contrapposizione polemica nei confronti dell'Urss. ma anche di un logico proseguimento delle ispirazioni originali della rivoluzione jugoslava, insurrezione e potere popolare, contestate e negate da Stalin sin dall'inizio. Nella sua applicazione questo corso ha registrato delle oscillazioni, anche degli sbandamenti però il filo rosso conduttore della politica jugoslava rimaneva costante: titoismo, che non è puramente e soltanto Vantistalinismo. Stalin morì nel 1953. dopo aver fatto votare ai capi dei partiti del Cominform un altro documento contro Tito. Bastava leggere il tìtolo per intuire quanto fosse frutto del cieco furore causato dall'impossibilità di imbrigliare il titoismo. La cosiddetta seconda risoluzione, emessa a Budapest nel novembre del 1949. era intitolata: «Il partito jugoslavo nelle mani di assassini e di spie». Nemmeno ciò fece vacillare Belgrado. Nel maggio del 1955 Krusciov giunse all'aeroporto della capitale: «Ci rincresce sinceramente per tutto quello che è / successo. E' stato un errore» dichiarò appena sceso dall'aereo. Ma di fronte all'accoglienza fredda e distaccata di Tito, che non volle pronunciare il benvenuto, stentò anche lui a capire che l'errore consisteva in sostanza nel considerare che ci fosse un solo socialismo, con un modello euncen tro un ico. La revisione della scomunica del 1948 avrà perciò dei continui a volte anche drammatici alti e bassi. Con tutto ciò. la cosa è ormai irreversibile: anche se con qualche timidezza, con le solite frasi involute, che mascherano le resistenze, si fa strada sempre di più il riconoscimento del fatto che it «titoismo» non è stato un semplice temporaneo spunto di orgoglio nazionale e balcanico, ma una vera e propria alternativa al modello sovietico del socialismo ealconcetto monocentristico del comunismo. Dopo molte reticenze, ricevendolo al Cremlino per conferirgli l'Ordine ii Lenin, Breznev ha dovuto riconoscere in Tito «un grande capo del movimento comunista». Contava forse di riassorbire cosi gradualmente anche lo «scisma» titoista. Però nello stesso momento, la nuova Costituzione jugoslava, portando l'autogestione e il non allineamento sino alle ultime conseguenze, fissava le più profonde differenze del sistema jugoslavo da quello sovietico. Mai i due sistemi si sono diversificati tanto come nel momento della •normalizzazione' dei rapporti. Erano stati meno differenti ai tempi della rottura e della scomunica. Frane Barbieri