Tito, il timoniere e il vento

Tito, il timoniere e il vento MILÒVAN GILAS RACCONTA FASCINO, SUCCESSO E DEBOLEZZE DEL SUO DIFFICILE AMICO Tito, il timoniere e il vento Questo riuscì a essere, con il suo pragmatismo, durante le tempeste della Jugoslavia negli ultimi quarantanni - «Nella politica il fine giustifica i mezzi: lui si servì degli ideali» - «Si riteneva più un sovrano populista che un capo comunista» Non ho mai conosciuto nessuno che possedesse il senso del pericolo di Josip Broz Ti-, to. Immediato e forte, era la sua caratteristica fondamentale. Guidava il suo atteggiamento verso la politica e la sua stessa vita privata. Ma era anche complesso: l'apprensione per il suo destino personale era amalgamata alla preoccupazione per i suoi' ideali e il lavoro della sua vita, di latto anzi ne era inseparabile. Capire il senso del pericolo di Tito può non essere l'unica chiave per comprendere la sua personalità e i suoi meriti. Ma senza questa comprensione è impossibile scandagliare l'una o gli altri. Faceva parte del suo essere: una specie di istinto umano o un modo di reagire. Naturalmente il senso del pericolo è caratteristico della vita, e quindi della politica. Ma in Tito poteva assumere iorme imprevedibili. Era talmente forte da potere, in qualche occasione, ingannare. Quasi mai in errore nella valutazione dei pericoli obiettivi, talora sopravvalutava o sottovalutava le minacce dirette alla sua persona. Durante la guerra, per esempio; quando noi partigiani combattevamo l'occupazione tedesca della Jugoslavia, Tito sentiva l'avvicinarsi del pericolo. Ma talora i timori per la propria incolumità gli rendevano difficile una decisione sul modo di evitarlo. * * Nel giugno 1943 i tedeschi lanciarono la loro Operazione Schwartz. Erano decisi a sbarazzarsi una volta per tutte del movimento partigiano e di , Tito. Ricordo Tito gridare ai suoi uomini, all'inizio dell'offensiva: «Non siamo mai stati in un tale pericolo.'». Di fatto scoprimmo in breve di essere circondati da numerosi anelli di acciaio mortale. In quell'occasione Tito escogito come superare le lìnee nemiche. Mai, la fuga avrebbe potuto essere più calma e più organizzata. Allo stesso modo, nel 1948, capi subito il significato del suo scontro con Stalin. Era un conflitto fra Stati. Ma la sua preoccupazione di salva-1 guardare la Jugoslavia e i suoi successi rivoluzionari era mescolata a timori per il proprio destino personale. Affrontò lo scontro con coraggio e abilità, ma fu attento a non respingere totalmente l'ideologia leninista dei sovietici perché, facendolo, avrebbe danneggiato il suo prestigio nel movimento comunista internazionale e la sua importanza in patria sarebbe diminuita. Durante una conversazione con Tito, nel cuore della crisi, osservai che da comunista avrei preferito vivere nella Jugoslavia pre-rivoluzionaria piuttosto che sotto la dominazione sovietica. Mi guardò incredulo: non per la mia scelta, ma perché anteponevo il Paese al regime e alla creatura personale di Tito nella quale .soltanto noi comunisti potevamo esercitare il potere. Il senso del pericolo lo tradì soltanto nelle situazioni più tese e incerte. Ma anche allora egli era in grado di valutare i pericoli e decidere una linea d'azione. E i suoi errori erano rapidamente dimenticati, o trovavano una giustificazione. Era un politico pragmatico e un organizzatore più che un pensatore profondo o originale. Inoltre il suo senso del pericolo lo rendeva molto sospettoso delle teorie e dei teorici. Per lui il marxismo-leninismo era immutabile; interpretava ogni tentativo di modificarlo come una minaccia al suo lavoro e alla sua posizione. E questo non perché fosse un ideologo, ma perché sapeva per esperienza e istinto che le nuove teorie precorrono il crollo di valori affermati. Soprattutto. Tito aveva il coraggio di prendere decisioni. E' vero che non era lui l'unica persona alla guida della Jugoslavia durante le tempeste degli ultimi quarant'annì. Ma sovente ebbi l'impressione che egli fosse al tempo stesso il timoniere e il vento. Qualcuno nasce rivoluzionario, con la capacità di adattarsi alle idee e alle condizioni dei suoi tempi. E cosi era Tito. Probabilmente avrebbe avuto una parte significativa e per-i sonale in qualsiasi movimento politico. Soltanto per mezzo del comunismo, tuttavìa, poteva diventare leader di una rivoluzione e padrone assoluto di un Paese. Raggiunse quella posizione identificando il movimento, il partito e il governo con se stesso. I suoi timori e le sue sventure divennero loro, e i loro suoi. Ribelle nato, imparò durante il suo secondo soggiorno nell'Unione Sovietica (1934-, 3(1) che le istituzioni e il potere sono più importanti degli ideali. Ma imparò anche che le istituzioni si frantuma- Milovan Gilas è nato nel 1911 nel Montenegro. Collaboratore di Tito fin dai primi tempi della clandestinità, dopo la guerra fu ministro della Propaganda e nel '53 presidente del Parlamento. Ma nel gennaio '54 un suo attacco allo «spirito di casta» che si era creato in Jugoslavia lo fece accusare di revisionismo e riformismo. Con Dedijer, biografo di Tito, fu estromesso da tutte le cariclie, e processato nel '55, ma ebbe una sentensa mite e fu subito rilasciato. Alcuni articoli su giornali esteri gli valsero, nel dicembre '56, una condanna a tre anni; altri 7 gli furono comminati nell'estate '57 dopo la pubblicazione in America del libro «La nuova classe». no se non sono cementate da un ideale. Nella politica il fine giustifica qualsiasi mezzo: Tito si servi degli ideali. Non sacrificò però i suoi ideali al potere: non perché fosse particolarmente legato agli ideali in quanto tali, ma perché si accorse che soltanto servendosene egli avrebbe potuto conquistare il potere. Per questo Tito era cosi importante per i comunisti ordinari, gente nel complesso più interessata al potere che agli ideali. I.o vedevano come il loro rappresentante: era il loro leader, anche il loro maestro, ma soprattutto l'esecutore dei loro desideri. L'identificazione di Tito con lo Stato e la vita nazionale lo indusse a valutare attentamente il suo ruolo nella storia. Questo interesse, affiancato dal buon senso, sovente evitò che la sua impazienza si trasformasse in crudeltà: era uno dei più razionali e meno dogmatici leader comunisti. Il suo crescente potere personale lo rese sempre più scettico sulla teoria marxista del decadimento naturale dello Stato. E questo, a sua volta, rafforzò le sue preoccupazioni sulla solidità di ciò che aveva ottenuto. In questo campo imparò una lezione dal suo modello di unte,mpo, Stalin. Sette o otto mesi dopo la morte di Stalin, osservò con alcuni collaboratori: «E' incredibile come sia staio rapidamente dimenticato un uomo come quello». La condanna mondiale per Stalin, soprattutto dopo la sua morte, incoraggiò Tito a cercare un equilibrio di comando fra potere personale e istituzioni legali impersonali. Gli avversari politici e i dissidenti avrebbero avuto poche speranze di sopravvivere in Jugoslavia se Tito non avesse capito la natura illusoria del «posto nella storia» conquistato col sangue dei soggetti e dei seguaci. ' Croato di nazionalità, si era sempre considerato jugoslavo, fin da giovane. Durante la guerra la sua devozione alla Jugoslavia piuttosto che alle sue singole nazioni era forte e incrollabile. Quel sentimento formava a suo avviso la base dell'autorità comunista e rappresentava la sua visione di un forte Stato balcanico centro-europeo. Tito non è mai stato emotivo a proposito della Croazia. A dire il vero ho sempre avuto l'impressione che sentisse maggiore affinità per gli sloveni (lo era sua madre) che per i croati. Rispettava i serbi, in particolare il loro spirito pugnace e la loro capacità di creare Stati. Ma la sua espressione intellettuale era foggiata più esplicitamente dalla regione natale, la Zagorje. dolci colline che fiancheggiano il confine della Croazia con la Slovenia. Non perse mai le inflessioni dialettali di Zagorje, anche se era in grado di apprendere con una certa facilità le lingue estere: prima il tedesco e il russo, poi l'inglese. Ricordo una nostra conversazione sul problema delle nazionalità nel 1953. quando l'indipendenza della Jugoslavia era già saldamente stabilita. Riteneva che le diverse nazioni del Paese si sarebbero inevitabilmente fuse in un'entità unica. Per lui appartenere a uno Stato era più importante che appartenere a un gruppo etnico. Non nascondeva la sua ammirazione per la monarchia austro-ungarica e per l'equilibrio di legge, ordine e autonomie locali con una forte centralizzazione politica. Attribuiva grande importanza alla costruzione delle istituzioni dello Stato, sia nelle loro strutture di base, sia nei loro simboli esterni. Neppure un'uniforme o un simbolo poteva essere adottato senza la sua attenta approvazione. Una volta decisa una cosa, diceva sempre, è difficile cambiarla. Tito era attento a proteggere la propria reputazione. Teneva a distanza persino gli amici più intimi, per¬ Usci dal carcere nel '61, ma nel '62 fu nuovamente arrestato per «Conversazioni con Stalin», libro «contrario agli interessi del Paese» e condannato a cinque anni. Rimase in carcere fino al '66. Vive in Jugoslavia. sino nell'estasi della morte o della vittoria durante la guerra. L'amicizia era consentita, a condizione che ciascuno sapesse stare al proprio posto. Tito aveva anche un buon senso dell'umorismo. Si potevano fare battute su di lui, a condizione che non minassero la sua posizione. Ma nel proteggere il suo prestigio poteva essere pedante e infantilmente banale. Tutto ciò che possedeva — i palazzi, le automobili, gli yuchts — doveva essere il più bello, il più caro e il più lussuoso. Persino la selvaggina che cacciava doveva essere la più grossa. Il suo amore per la ricchez¬ za era criticato dagli intellettuali e dagli idealisti del partito, che erano ancora piuttosto numerosi nei primi anni del dopoguerra. Ma Tito non vi rinunciava. Non si trattava soltanto di essere affezionalo al lusso, era anche un modo di dimostrare il proprio potere. Per lui il luccichio della veste era inscindibile dalla carica e dal prestigio politico. Gli ricordava le vecchie teste incoronate, gli imperatori austro-ungarici e i re di Serbia. Conservava scrupolosamente tutto ciò che era appartenuto alla corte reale, e vi aggiungeva molto personalmente. Tito naturalmente si rendeva conto che molto di tutto ciò contraddiceva la modestia e la semplicità professate dai comunisti. Ma personalmente non aveva mai predicato quest'etica, né proibiva ai suoi seguaci di vivere allo stesso modo, in seguito il suo stile di vita epicureo consenti al partito di scartare certi dogmi e di liberalizzare la società. Non riteneva che la popolazione fosse contraria al suo modo di vivere. Sapeva che al pubblico piacciono le personalità forti e i lustrini che le circondano. Era preoccupato dai problemi della gente comune, soprattutto dei poveri. Ricordava la povertà della sua giovinezza. Si riteneva più un sovrano populista che un leader comunista. Per un uomo di tale capacità politica le regole di governo erano facili da imparare, e il gusto per il lusso ancora più facile da assorbire. Tito era anche pronto a imparare altre cose. Una volta corressi la sua pronuncia di una frase latina, ed egli non commise mai più lo stesso errore. Prima della guerra era lo stesso per l'ortografia. Sebbene gli piacessero la caccia e i divertimenti, non era pigro. Ma neppure lavorava troppo. Non si lasciava sfuggire nulla che fosse im-portante per la politica, per il potere, per il suo prestigio personale. Era un politico completo. Se tutto funzionava come egli aveva stabilito, era soddisfatto di un discreto controllo. Per mesi non interferiva nel lavoro mio o di altri. Era flessibile e intelligente, capace, meticolosamente attento ai particolari se a lui sembravano importanti. Personalmente non accettava la teoria marxista sul ruolo dominante delle masse nella storia. Una volta discussi con lui questa teoria, mentre sul treno scortavamo la bara di Boris Kidric. Tito replicò: «Sciocchezze, sovente il processo storico dipende da una sola persona». Pensava chiaramente a se stesso e al suo ruolo. Non credo che i sentimenti religiosi fossero dei tutto morti in Tito, sebbene si professasse ateo. Quando una volta gli dissi che la morte è seguita soltanto da una decomposizione chimica, Tito rispose con un sorriso: -Non parlarne. Chi lo sa?». Insisteva che la firma delle condanne a morte non era sua responsabilità come Capo dello Stato. Senza dubbio ciò può essere attribuito alla sua preoccupazione per «un posto nella storia». Ma rifletteva anche un represso senso del peccato. Il suo coraggio era sempre motivato. Evitava rischi inutili. Ma sarebbe stato sicuramente disposto a morire piuttosto che rinunciare al potere conquistato. Durante l'amara incertezza del nostro conflitto con Stalin nel 1948. mentre passeggiavamo in un ex parco reale a Brdo, improvvisamente gridò con furiosa convinzione: ••Morire sulla propria terra! Almeno rimarrà il ri-, cordo». Mai intrigante, era leale con i suoi collaboratori, almeno fino a quando non affioravano divergenze o «deviazioni». Allora diventava sospettoso e sollecitava il proprio ingegno, eliminando testarda-' mente quelle divergenze e rovinando senza pietà la reputazione del colpevole. Dopo avere schiacciato un avversario, non cercava altro tipo di vendetta personale. Superata l'amarezza del momen-. to. vendetta e perdono erano dettati dalle necessità politiiche. Neppure la mia espulsione dal partito e la successiva incarcerazione, credo, furono motivate da un desiderio personale di vendetta da parte di Tito. A dire il vero credo che, all'inizio, il nostro conflitto sia stato molto difficile per lui. Milovan Gilas Copyright Times Newsrapeis c per l'Italia l.u Stunipa , Tifo ;il Cremlino con Stalin, prima della rottura avvenuta nel marzo 1948