Cattivi Pensieri di Luigi Firpo

Cattivi Pensieri Cattivi Pensieri di Luigi Firpo Periodicamente si riaccende nei Paesi industrializzati il dibattito sulla crisi delle città. Si riparìa di alveari di cemento ammorbati dai gas di scarico, di megalopoli anonime e caoticìie dove la vita è diventata impossibile. E periodicamente gli urbanisti tornano a sperare che la loro ora sia. finalmente venuta e si possa una buona volta programmare le nostre agglomerazioni urbane al lume della ragione pura e delle scienze sociali più avanzate. Presto però le acque si placano, gli entusiasmi pianificatori si spengono e subentra come un senso d'impotenza: quello stesso die ci assale di fronte alle forze più grandi dì noi. Riusciamo a demolire qualclie catapecchia, a sventrare magari un quartiere storico, ad aprire a forza di piccone un rettifilo, poi tutto finisce lì, e la città vitale, proliferante, indomabile, continua a crescere per conto suo, con uno spontaneismo ribelle. Se i piani regolatori, destinati a fissare norme di ferro per i fabbricati nuovi, diventano di gomma sotto il premere di enormi interessi economici, di evasioni sistematìdve, di sanatorie tolleranti (oltre clie di continue varianti compromissorie), come si può sperare di intervenire in modo efficace su un tessuto urbano, fitto, stratificato nei secoli, depositario di un'immensa accumulazione di capitali? L'impressione che se ne trae è che la città sia più forte degli uomini, goda di una sua vita millenaria infinitamente più lunga e tenace di quella misurata in pochi decenni delle generazioni che vi abitano, rappresenti infine un ammasso cosi aggrovigliato di volontà singole, tentativi, capricci, esibizioni e speculazioni, da rendere vani gli sforzi di pochi programmatori zelanti (a modo loro) del pubblico bene. Se guardiamo indietro nel tempo, è facile vedere die le imprese urbanistiche die incisero nel corpo delle vecchie città furono tutte opera di despoti ambiziosi, rivolti a creare scenografie solenni per le parate del potere, più che a migliorare le condizioni di vita dei loro sudditi. Dai rettifili aperti da Sisto V nel tessuto della Roma rinascimentale per collegare le grandi basiliche con percorsi diretti per i pellegrini, alle raggiere di boulevards che Napoleone III aperse con spietata magnificenza nel cuore di Parigi per le caridie degli ussari, la storia dell'urbanisti- y - ca è costellata di interventi brutali e rozzamente distruttivi, testimonianze di opulenza fastosa e di insensibilità storica totale: piazza della Repubblica a Firenze, la vìa dei Fori Imperiali a Roma, la stessa ina Roma a Torino sono esempi parlanti di questi «risanamenti» ottusi, fallì di amputazioni cruente e di protesi falsamente lussuose. Quanto poi alla fondazione dì città nuove per atto d'imperio sovrano, gli esili modesti (da Portoferraio a Palmanova)- sono sotto gli occhi di chi sa vedere, e l'orgogliosa «ampliazione Erculea» di Ferrara, cinta di mura superbe, ma ancor oggi dopo cinque secoli disseminala di orti e giardini, è una testimonianza parlante del carattere spontaneo della città, che sembra farsi beffe del nostro orgoglioso volontarismo per vivere un 'esistenza propria, imprevedibile e indomita. In questa direzione, le due maggiori esperienze dell'ultimo secolo sembrano egualmente fallite. La prima è quella delle città-giardino teorizzate da sir Ebenezer Howard nel 1898 e diffusa soprattutto in Inghilterra con un certo successo. Si tratta di una risposta umanitaria agli slums infetti dei sobborghi urbani e ai grigi villaggi dei minatori. L'ispirazione è quella di tornare a sposare la città alla campagna, decentrando e umanizzando gli insediamenti residenziali. Howard anticipa l'economista Schumacher («piccolo è bello!») proponendo città per 30.000 abitanti, costruite su un'area di 400 ettari con linde casette attorno ad un parco centrale che accoglie gli edifici diresionali e di pubblico svago. In cerchio più largo le piccole officine non inquinanti e, tutto intorno, 2000 ettari di boschi e prati per ossigenare l'aria e ritemprare i cittadini nella serenità pastorale. Un sogno idillico, che presuppone lerritorio illimitato, risorse abbondanti e comunità invariabili e autosufficienti, in cui la popolazione non cresce e non cala, i rapporti economico-sociali sono permanenti, nessuno parte e nessuno arriva. Una proposta di ritornare all'antico villaggio in piena civiltà post-industriale, in un mutare vorticoso di gusti, abitudini, professioni e tecnologie, è una bonaria utopia, come se non bastasse da solo l'evolvere dei nessi familiari a cambiare il modo di abitare (e di vivere insieme). L'esito delle cittàgiardino è che esse tendono a diventare in pochi decenni delle città come tutte le altre. All'altro polo stanno le utopie da fantascienza volte a un immaginario futuro, come la «città radiosa» di Le Corbusier. Immense torri verticali molto distanziate, in ciascuna delle quali vivono decine dì migliaia di persone collettivizzate, integrate, private di ogni intimità e felici per ordine superiore. La lotta contro la polluzione da affollamento, il via vai di vertiginosi ascensori, i materiali sofisticati, l'armamentario elettrico, dai condizionatori d'aria e dalle falciatrici d'erba ai cento aggeggi domestici dal tostapane all'affettatrice, presuppongono consumi d'energia smisura ti, un'opulenza diffusa e gratuita. Tradotti in atto, questi sogni si rivelano, come Chandigar in India o nella Brasilia di Niemeyer, geometrie astratte e glaciali, titanismi cementizi in cui si concretizza una visione metafisica, ma non pulsa la vita disordinata e sanguigna della gente vera. Non sto cercando di sco raggiare gli urbanisti, perdio so bene quanto abbiamo bisogno di loro per tentare di razionalizzare almeno in parte il caos urbano in cui ci tocca vivere; ma vorrei che essi avessero coscienza della pochezza delle nostre forze e dell'immensità del compito che ci propongono. Scrive Irwìng Kristol, uno specialista dei problemi urbani dell'università di New York, die l'odierna crisi delle città è uno scherzo rispetto alle crisi in cui si dibattono gli urbanisti, lacerati nel loro intimo tra velleità gigantesche e quasi totale impotenza. Forse da questa crisi potrebbero cercare di uscire, se si accontentassero di progettare città adatte ad ospì tare l'uomo di oggi, non quelle che dovrebbero ren dere felice a tutti i costi l'uomo immaginario dì domani.

Persone citate: Cattivi Pensieri, Kristol, Le Corbusier, Napoleone Iii, Niemeyer, Schumacher, Sisto V