I bianchi ribelli dell'Algeria di Mimmo Candito

I bianchi ribelli dell'Algeria PERCHE' LA RIVOLTA DI KABYLIA STA LACERANDO IL PAESE I bianchi ribelli dell'Algeria I berberi sono sei milioni, un terzo degli abitanti, ma nella crescente «arabizzazione» voluta dal regime rischiano di restare minoranza o, peggio, di venire emarginati - Rivendicano la propria identità culturale e linguistica - Promossero già nel 1871 i primi moti anticoloniali e, nel 1954, la guerriglia contro i francesi - Ora la loro protesta rischia di estendersi DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE ALGERI — La Grande Ka-bylia, il cuore dei berberi, è a un centinaio di chilometri dalla capitale, sulla strada per Constantine. La terra in faccia al mare è già colorata d'estate, e il massiccio del' Djurdjura comincia a perdersi nell'aria calda che riempie il Sud. Ma la sera fa ancora freddo, e la gente va in giro col burnus bianco, come una volta. E' terra di contadini, e di rivoluzioni. L'ultima è scoppiata in questi giorni, nelle strade di Tizì-Vzu; e ad Algeri c'è stato il panico, col black out d'ogni notista. Quando passava un kabylo, una volta, c'era sempre qualcuno che sputava per terra. Ora fanno paura, coi berberi non si sa mai come va a finire. La prima rivolta anticoloniale mosse dalla Kabylia, nel 1871, e fu ancora li che il giorno d'Ognissanti del '54 si radicò la rivoluzione contro i francesi: il capo era Belkacem Krim, il più vecchio e il più duro dei nove maquisards che hanno fatto la storia, il solo a passare lìbero il corso della guerra fino alla morte nell'albergo di Francoforte. Berberi erano anche Ait Ahmed, Budiaf, Tahar Zbiri, e ancora dalla Kabylia mosse il colpo che doveva rovesciare Ben Bella. C'è come un segno della storia dentro gli annali di questa regione, e nessuno del capi deìl'Fln a Algeri è tanto giovane da non saperlo. Tanto più che le ondate migratorie degli.ultimi vent'annì hanno fatto oggi di Algeri la più grande città kabpla; le parole di rivolta che arrivano lungo la strada di Thenia rror vano orecchie/ attente, nelle scalinate dell'università di rue Diduch Mura.d ci sono state orazioni concitate. Si è riascoltato il nome dì Fanon, che sulla rivoluzione algerina aveva modellato il processo di liberazione dei «dannati della terra». Ma la storia e la rabbia di Fanon sono ora rovesciate, i cittadini della nuova Algeria non ritrovano più la realtà nazionale e popolare del movimento d'indipendenza. Nell'accusa dei berberi, le élìtes dei mujahiddin diventano i nuovi «colontezatorir. ; non si parla ancora di nazione kabyla, nessuno osa farlo, ma la rivendicazione d'una identità culturale più che un rifugio pare un obiettivo di lotta. E i berberi sono sei milioni, un terzo dell'intero paese. La loro storia parte dalle migrazioni camitiche dell'Asia anteriore', ma nella civiltà islamizzata del Nordafrica i berberi sono «i bianchi». E la nuova guerra mette questi «bianchi» contro gli arabi. Dice A. Rahmani, antropologo: «il problema berbero era già stato posto al tempo della lotta di liberazione, ma col pretesto dell'unità nazionale fu lasciato alla sola comunità arabofona il privilegio assoluto della rappresentatività algerina». .Rispunta wn orgoglio nazionale, e trova l'appoggio di quanto diceva qualche tempo fa il ministro della cultura Ahmed Taleb Jbrahimi: «Quando si dice che l'Algeria è composta di berberi e di arabi è falso; gli algerini non sono che berberi più o meno arabizzati». Il discorso va forse adattato all'intero Maghreb, scavalcando i confini segnati da una storia tutto sommato recente. Gli storici arabi lo chiamavano Jezirat El Maghreb come fosse un'isola, chiusa nei caratteri d'una geografia e d'una civiltà distaccata dal 'resto dell'Africa. Non era una lezione dettata solo dal taglia della grande catena dell'Atlante; c'è nello sviluppo di questo territorio una sorta di profonda staticità, che riceve e accoglie i contributi infiniti delle civiltà che vi sono passate (Fenici, Greci, Romani, Bizantini, Vandali,- Arabi) ma che ritrova sempre, alla fine, «il residuo» della sua civiltà autonoma, la cultura, l'orgoglio e il costume dei grandi altipiani. I segni più intensi dì trasformazione arrivarono certamente con l'invasione araba, che se ebbe una storia politica di soli tre secoli lasciò però una traccia immodificabile con l'islamizzazione dei berberi. Forse non è possibile recuperare una unità psicologica delle genti berbere, tra le regioni della costa e le caténe montagnose del Sud, come non si è mai realizzata una loro coscienza nazionale, per la frammentazione delle organizzazioni politiche. Tuttavia, non può nemmeno confondersi la loro storia con quella degli arabi, venuti dall'Oriente del Mashrek, ma tornativi poi nel 972, quando il califfo Al Muizz lascia l'impero maghrebino per'andare a regnare in Egitto. Oggi i berberi della Kabylia rifiutano di perdere questa identità. Dicono «Giugurta e Massinissa da noi sono ancora degli eroi popolari», e ricordano come invece la Charte Nationale — ch'è il fondamento del nuovo Stato algerino — abbia ignorato le origini berbere del paese. Poi è venuta la soppressione dell'unica cattedra di lingua e storia kabila, la .proibizione ad alcuni cantanti berberi di far musica popolare nella loro terra. Da qualche tempo, ma soprattutto dai mesi della rivolta iraniana, il regime algerino sta accentuando il suo programma di «arabizzazione» del paese. I segni più evidenti sono forse le strisce di vernice blu che coprono il vecchio nome francese delle vie d'Algeri, di Orano, Bechar, Constantine. Ma il problema è anche scolastico: si va. formando una categoria di studenti che rischiano d'essere una élite estranea, non compresa dagli altri, sradicata da una società dove il francese è ancora la lingua fondamentale dell'insegnamento universitario e dell'esperienzn scientifica. A set i, le lezioni sono ancora tenute in francese e in arabo «classico». Sono entrambe lingue straniere, perché quest'arabo orientale è diverso — nella struttura glottologica oltre che nel lessico —dall'arabo popolare algerino; gli studenti dei corsi di arabisation (che sono ancora una minoranza, comunque) debbono invece usare soltanto l'arabo classico, e finiscono per essere confinati a un linguaggio non usato e non compreso. Hanno paura di non trovare lavoro, temono di restare una minoranza, di finire emarginati. II malaise kabyle s'allarga cosi alle tensioni dell'intero mondo giovanile algerino. In venticinque anni, la popolazione s'è più che raddoppiata; ma il sessanta per cento sono ragazzi, figli d'una rivoluzione la cui base sociale ha subito una trasformazione: il blocco contadini-plebe cittadina si è frantumato, è nato un proletariato urbano, s'è allargato il tessuto (e le ambizioni) delle classi medie. E' comparsa una nuova intelligentsia. Il tourbillon è stato violento, ma la sedimentazione delle nuove forze sociali, e della nuova cultura, sconta ancora la rigidità ideologica e le resistenze delle genera¬ zioni che si sono identificate con la lotta dell'indipendenza nazionale. In questa realtà ambigua, i segnali sono difficili da decifrare. Tutti mentono un po'. I kabyli che lottano per difendere la pluralità delle lingue algerine («che sono la ricchezza del paese»), agitano poi anche le paure eKle rivendicazioni d'un futuro incerto, dove le parole d'ordine del passato non s'intendono più. E le autorità d'Algeri che accusano i giovani manifestanti di battersi in realtà per mantenere la posizione privilegiata del francese («la lingua della colonizzazione»), temono di fatto l'esplosione dei ritardi che penalizzano soprattutto i giovani, lontani e indifferenti alle mobilitazioni ideologiche dei maquisards. In un largo e vecchio magazzino di rue Ben Larbi c'è in questi giorni un'esposizione celebrativa dei 25 anni della rivoluzione: tute mimetiche, qualche fucile, una bandiera lacerata, le foto della lotta. I visitatori sono molti, dentro c'è sempre gente. Ma giovani, quasi nessuno. Restano fuori a passeggiare in lunghe file rumorose e allegre, schiamazzando in francese, in arabo popolare, o in uno dei dialetti berberi. Il giornale di maggior prestigio, El Moudjahid, l'anta i successi del programma di arabizzazione; ma per leggere una vera notizia della rivolta di Tizi-Uzu s'è dovuto aspettare più d'una settimana. La rivolta finirà probabilmente lì dov'è nata. Ci saranno ancora solo brevi agitazioni, e qualche proclama degli studenti di Diduch Murad. Ma i segni restano, e anche i problemi che ci son sotto, d'una società in crescita epperò anche in crisi. Ad Algeri sono inquieti, sanno che la questione berbera è la scheggia d'un movimento più largo e più indefinito, Sanno anche che quando si muove-la Kabylia, poi succede sempre qualcosa. Mimmo Candito