Quegli enormi cassoni di latta sono «bocciati» dal caro-petrolio

Quegli enormi cassoni di latta sono «bocciati» dal caro-petrolio COSA CAMBIA NELL'INDUSTRIA AMERICANA DELL'AUTO Quegli enormi cassoni di latta sono «bocciati» dal caro-petrolio La colpa, sostengono i tecnici, è tutta indubbiamente della più grande costruttrice di automobili del mondo, la «General Motors Corporation» quando negli Anni Cinquanta guidata dal più abile progettista di vetture di Detroit. Alfred P. Sloan, fece uscire dalle sue catene di montaggio, nell'intento di conquistare nuove fette di mercato, i primi incrociatori stradali. Quei cassoni di latta, troppo grandi all'occhio europeo, equipaggiati con formidabili motori a 8 V. superavano per comfort e altre caratteristiche tutti i prodotti non americani a quattro ruote. Le potenti vetture, di cattivo gusto se giudicate con l'ottica moderna, si rivelarono tuttavia ben presto un grosso successo di vendita nonostante si sentisse quasi gorgogliare la benzina nel carburatore. Allora però negli Stati Uniti un litro di super costava solo un paio di «cents». Anche per un altro motivo, la GM ebbe buon naso: proprio in quel momento si allargava in America la prima grande ondata di benessere. Era insomma il tempo in cui l'amministrazione Eisenhower ricamava il Paese dall'Atlantico al Pacifico con una fitta rete di autostrade. Si creavano cosi i punti deboli di uno sviluppo che oggi pongono grossi problemi all'America. Ancora nel 1977, secondo una statistica dell'Opec, il cittadino americano ha consumato 1941 litri di benzina contro i 462 del tedesco, i 428 del francese, i 408 del britannico e i 245 dell'italiano. Sulla scia della GM vennero subito la «Ford Motor Company», la «Chrysler Corporation» e più tardi, fondata nel 1954. la piccola American Motors Corporation. A rincarare la dose a Detroit si era sparsa la massima di Sloan: -Più grande l'auto, più grande il guadagno-. La sua strategia di marketing si basava sul presupposto che nella produzione in serie di vetture più grandi si spende «solo» un paio di centinaia di dollari in più rispetto ai modelli più piccoli, mentre alla vendita la differenza si moltiplica a proprio favore. Un esempio: alcuni anni fa il divario di prezzo all'origine per il costruttore tra la Chevrolet «Caprice» e la Cadillac '«Deville» era di circa 400 dollari, ma i distinti acquirenti della Cadillac spendevano 3800 dollari in più rispetto a quelli della Chevvy. Con Sloan l'auto era diventato insomma uno «status-symbol». Da qui nacque la spinta consumistica di cui l'America per lungo tempo non è riuscita a liberarsi. La nuova filosofia, associata alla notevole crescita del reddito reale e alla tendenza a possedere due o perfino tre auto per famiglia, ha mutato completamente la Detroit di quel tempo. Dopo un'ondata di scioperi e le variazioni cicliche della congiuntura, ai primi segni di avvertimento, comparsi sotto forma di prezzi crescenti, non si volle prestare attenzione volontariamente o per trascuratezza. Segui quindi l'inflazione che prese slancio in conseguenza del «programma del benessere» del presidente Johnson e della crisi del Vietnam. A dispetto delle «Vega». «Pinto» e altri modelli di dimensioni modeste e di scarso successo, cui si dedicarono la GM, la Ford e la AMC. la crisi del petrolio del 1973-74 eb- be infine per la «città dell'auto» l'effetto di uno scontro frontale. Dopo due anni di « boom la produzione di autoveicoli degli Stati Uniti scese nel 1974 del 24 per cento e l'America precipitò nella più grave recessione dopo gli Anni Trenta. Le divoratrici di benzina si accumulavano in gigantesche colline perché nessuno le voleva più. Due anni più tardi la paura era passata. Appena la super riprese a sgorgare gli americani tornarono subito ai loro grossi cassoni. Già nel 1976 Detroit vendeva 8.6 milioni di vetture nazionali aumentando i guadagni netti, rispetto all'anno precedente, del 233 per cento. Per contro le importazioni sul mercato americano scendevano dal 18 al 14,8 per cento. E Lee Iacocca. silurato da Henry Ford nel 1978 e attualmente capo della Chrysler, sentenziava a torto: -gli europei e i giapponesi non ritorneranno più». I costruttori americani hanno sempre affermato che non si doveva mai produrre «prevenendo» il mercato. In ciò può esserci qualcosa di vero anche se la lungimiranza non guasta al super manager. Ma il successo delle vetturette importate proprio negli ultimi anni si può spiegare unicamente col fatto che Detroit non è stata in grado di opporre nulla alle graziose e economiche «straniere». Fu necessario attendere che i legislatori di Washington, disgustati della massima esclusivista del guadagno, prendessero in mano il sistema di tassazione per correre ai ripari. Poi vennero il rincaro del greggio, la debolezza del dollaro e la preoccupazione della carenza di posti di lavoro. Spinto dalle diverse amministrazioni il Congresso ha imposto cosi pesanti restrizioni sui gas di scarico, sulla sicurezza e sui consumi, in sostanza un pesante giro di vite. Le case produttrici dovranno portare entro il 1985 il consumo medio teorico, globalmente per tutte le auto, a 8.6 litri di benzina ogni cento chilometri. Per i livelli americani è un'imposizione severissima, soddisfabile a prezzo di enormi investimenti. Come Washington sventola il bastone. Detroit s'inchina. Il che significa che gli «incrociatori stradali» diventeranno più corti e più leggeri. La GM dedica alla «cura» mediamente 3,2 miliardi di dollari all'anno. Con 2,5 miliardi la Ford ha realizzato, per tutti i suoi modelli di punta, una modifica ai con¬ sumi facendo risparmiare circa il 38 per cento di benzina. La Chrysler Corp., finanziariamente più debole, ha indugiato probabilmente troppo. La richiesta delle sue popolari vetturette, Omni e Horizon a trazione anteriore, non ha potuto essere soddisfatta a causa della mancanza di motori, forniti dalla Volkswagen (300 mila all'anno). I dinosauri vecchia maniera oggi non sono insomma più richiesti. Il problema dell'industria americana è comunque sempre quello di produrre ancora troppe grosse vetture ed essere ancora molto al di sotto del fabbisogno nella produzione di quelle piccole. Anche se attualmente sono a disposizione molti più modelli a consumo limitato, le poche catene di montaggio non sono in grado di tenere il passo con le richieste. Chi ci guadagna sono i rappresentanti di macchine straniere, specie delle piccole vetture. L'anno scorso hanno esportato più di 2,3 milioni di unità contro esattamente 2 milioni dell'anno 1978. La fetta di mercato americano è salita al 22 per cento. Nel 1979 vennero vendute sul mercato americano 350 mila auto tedesche, 70 mila italiane, 42.500 inglesi e 31 mila francesi. Un esempio può chiarire come siano mutate le quote di mercato delle «straniere»: nel 1970 le europee costituivano l'I 1,7 per cento e le giapponesi il 3,5 per cento, l'anno scorso le percentuali si sono quasi esattamente invertite, cioè 5.1 e 16.6 per cento rispettivamente. I principali responsabili dell'ultima crisi sono stati i persiani quando, nel feb¬ braio 1979. hanno strozzato le esportazioni di greggio. In America si propagò il panico, partito dall'assetatissima California. Dopo le code di mesi alle colonnine dei distributori la richiesta di «incrociatori stradali» è però notevolmente diminuita. Al 31 gennaio nei magazzini di Detroit erano in giacenza solo grosse auto nonostante le allettanti offerte-occasione. I pesanti cedimenti di mercato hanno determinato alla GM nel 1979 un mancato guadagno del 18 per cento pari a 2,9 miliardi di dollari. La Ford in Nord America ha registrato una perdita secca di un miliardo di dollari, recuperato parzialmente solo dalle rivalse di licenze dall'Europa. Chrysler, con più di un miliardo di dollari in rosso è completamente a terra. Una dozzina di fabbriche statunitensi hanno chiuso. Circa 200 mila lavoratori americani del settore e di aziende associate sono senza lavoro. L'insieme costituisce un terzo del numero totale di occupati (865 mila). Il sindacato dell'Uniteci Automobile Workers teme tuttavia che il peggio non sia ancora arrivato. Nella recessione del 1975 solo i «Big Three» cioè GM, Ford e Chrysler, misero in strada 250 mila lavoratori. Da serie previsioni il fatturato auto per i modelli 1980 subirà un calo del 14 per cento scendendo a 9,5 milioni di vetture. Mentre le importazioni probabilmente aumenteranno, Detroit dovrà rassegnarsi a produrre un milione e mezzo di auto in meno. Con tutto ciò l'industria automobilistica americana, nel suo insieme, è più robusta di quel che sembra. H -Alexander Siebert La produzione di automobili (Secondo dati ancora provvisori pubblicati dalla «Revue automobiles di Berna) 1978 1979 Nelmondo 31.669.395 31.550.000 Nella Cee 10.084.333 10.180.000 Nel Comecon 2.224.315 2.357.000 Negli USA 8.511.430 9.220.240 In Giappone 5.796.055 6.100.000