Mia cara primavera sei così poco soave di Francesco Rosso

Mia cara primavera sei così poco soave LAVORI E LACERAZIONI DI UNA STAGIONE INQUIETA Mia cara primavera sei così poco soave Tutto concorre a far credere che la primavera sia stagione soave. Un giorno mite, assolato, l'avvio lento ed il dipanarsi sempre più rapido di marzo, la subitanea liquefazione delle fiam■ meggianti, mirabili costellatati jdi ghiaccioli che nei freddi mattini ancora splendono sui rami alle prime luci, dicono che muore il crudo inverno e le linfe primaverili già premono tumefat-, te dal vigore entro gli alberi' ancora assonnati, entro la terra che si sbriciola e si offre come in amore. Migliaia, milioni di uomini, i contadini, si affannano alla loro impresa; sagge, alacri levatrici di un mondo che vuole nascere, o rinascere. Sugli argini, tra il seccume strinato dall'inverno morente, timidi fiori gialli, rosa e bianchi accennano: «E' la primavera, la dolce, profumata primavera». Inganno, la bella soave stagione nasce a fatica, tra sofferenze, come l'uomo dopo una gestazione eroica. In attesa del momento, tutto appare silenzioso, immo-, to, chiuso entro spazi vuoti. Anche i gesti dei contadini hanno movimenti trasognati, lentissimi, quasi coscienti delle ferite, dei tagli, delle lacerazioni cui saranno costretti per liberare la primavera dal grembo dell'inverno. Così la primavera diventa stagione feroce, perché all'inizio c'è scempio su ogni cosa. Il contadino pota gli alberi (in alcune zone piemontesi dicono sclava. talora scarva> e può apparire criminoso. Scalva ci scarva, è forse l'inconscia traduzione di scalpo, lo scotennamento. I potatori tagliano i rami proprio nel punto in cui s'innestano al tronco, ed alla fine la pianta, più che rasata, appare davvero scotennata. Ricordo anni or sono, quando a Torino si incominciò a potare i platani di corso Vittorio; rimasero chilometrici filari di piante scotennate, una pena infinita per chi ricordava il rigoglioso intreccio di rami che facevano volta ombrosa sul corso. «Li hanno uccisi, è stupida ferocia», diceva la gente. Invece, i platani rimi- sero rami e foglie, e da allo;ra, periodicamente, li scalpano, ferocemente, per mantenerli vivi. Sulle colline, i vignaiuoli hanno già incominciato il paziente lavoro dipanatore dei tralci. Li staccano dagli antichi sostegni, li abbandonano in cascate simili a chiome disciolte, li palpano e li sentono già pervasi da umori. Eppoi, ferocemente, con le cesoie, tagliano senza esitare il tralcio al punto giusto; una mutilazione crudele, ma indispensabile se si vorrà vino dai pochi germogli esatti che il vignaiuolo lascerà vigoreggiare. Nei giorni scorsi percorrevo la strada delle Grangie, fra distese di risaie dilaganti fino ai colli del Monferrato. I contadini avevano asperso un poco di benzina sulle stoppie e gettato un fiammifero. Gli incendi crepitavano come musica demoniaca, e le fiamme s'ingigantivano distanziate nel silenzio e nell'immobilità dell'atmosfera. Sugli argini neri i salici ed i pioppi erano già scalpati, qui la primavera nasceva in un sentore di orrido. Persino gli infiniti aratri automatici già all'opera parevano intimiditi dalla vastità del paesaggio, dalla sensazione di mestizia che emanava dal lento muoversi delle loro ruote, dai vomeri che trascinavano e squarciavano la terra, rivoltandola nera contro il giallo di stoppie non ancora bruciate. Operazione tristissima l'aratura ed il conseguente passare dell'erpice che sgretola, tritura, sminuzza, polverizza le zolle, ma necessaria al nostro sopravvivere. Annualmente dobbiamo mutilare gli alberi, squarciare la terra per ottenere gli alimenti che ci sono indispensabili. A considerarci con attenzione, ci riveliamo dei matricidi a rotazione annuale, ma con la possibilità di tir onerare la nostra vittima. Usiamo roncole, asce, vomeri, cesoie, badili, marre, strumenti micidiali nella nostra attività maieutica di fisiocrati convinti, ma consumiamo la nostra crudeltà contro la natura con quieta coscienza; sappiamo da sempre che la terra, per indurla a produrre, dev'essere violentata, che il seme, per generare, deve marcire nel buio ventre della terra. La primavera non è stagione soave, nella quadrilogia è la sorella che soffre per tutte le sorelle pene atroci. Già quel rumore di vita che le giunge dall'interno del suo lungo letargo è sofferenza, perché svegliarsi, e lo proviamo noi stessi ogni mzttina. è sofferenza. Ed ancor più doloroso è il travaglio per tornare alla vita in giorni non sempre lieti, sovente percorsi da gelide tramontane che tardano ad acquietarsi, anche da improvvise, tardive raffiche di neve, o di pioggia dura come grandine. Ma lentamente, come la gestante dopo il primo vagito-grido del neonato, la natura troverà esauste gioie nell'abbandono e nel rilassamento totale dei chiari mattini, dei pomeriggi carichi d'impazienza diffusa per quello che avverrà poi, nel lento fluire dei giorni. Il marzo folle, ventoso, imprevedibile porta con sé anche momenti di lunghe pause placate. Il colonnello meteorologo ci ha esortati a non riporre il cappotto, torneranno i rigori invernali. Forse l'azzeccherà, forse no, ma anche se i suoi strumenti che giungono a calibrare le isobare al millesimo dicono il vero, non perderemo le speranze che la sofferente primavera offrirà presto sonnolenti splendori riverberati dalle pozzanghere, che i sibili delle serpi, gli squittii di passeri, merli e gazze, l'uggiolare di gemiti canini nelle notti quiete, ci diranno che la «grande gestazione» si è gloriosamente conclusa e che la risata stridula, roca, maligna della notturna civetta è. in realtà, il canto della resurrezione. Francesco Rosso «Arriva la primavera», foto di Gian Paolo C'avallerò

Persone citate: Arriva, Gian Paolo, Migliaia, Scalva

Luoghi citati: Torino