UNA MOSTRA A VENEZIA CELEBRA I VECCHI PROVOCATORI di Stefano Reggiani

UNA MOSTRA A VENEZIA CELEBRA I VECCHI PROVOCATORI UNA MOSTRA A VENEZIA CELEBRA I VECCHI PROVOCATORI Pop Art, beffa e nostalgia A quasi vent'anni dai primi scandali, gli artisti americani confrontano le opere di allora e di oggi - I tradizionalisti indulgenti con gli oggetti oltraggiosi di Oldenburg e Warhol - Autocritiche e ostilità del mercato - Restano i meriti dell'avanguardia; dice Barthes: «Ha dato una distanza al nostro sguardo» DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE VENEZIA — La scatola di minestra Campbell's è ancora gloriosamente banale, come nel 1962; e il ritratto di Liz Taylor ha la corriva e ironica facilità che andava bene nel 1963. Ma il grande poster di Mao, che fronteggia le vetrate sul Canal Grande, ha la malinconia degli anni (1973), e il pugile Muhammad Ali (1978) stringe i pugni inquieto contro la pittura di sempre. Le opere di Andy Warhol occupano la sala principale di Palazzo Grassi nella mostra 'Pop Art, evoluzione di una generazione*, che s'è inaugurata ieri e resterà aperta fino al 6 luglio. Secondo il curatore, Attilio Codognato, si tratta di mettere a confronto la Pop Art storica degli Anni Sessanta con le imprese (coerenti o incoerenti) dei popartisti ai giorni nostri. Sembra tuttavia che tutto sia stato predisposto per una celebrazione e un fumo invisibile di ricordi (vent'anni sono lunghi come un secolo) si alza davanti allo scalone d'onore. Come visitatori innocenti, lettori di fumetti, consumatori di oggetti, guardatoli di particolari straordinariamente comuni, insomma come popartologhi distinto ci siamo lasciati catturare dai percorsi simbolici della mostra, in cerca delle nostre debolezze. Ecco infatti, accanto a Warhol, i fumetti giganteschi di Lichtenstein che sgranano il retino del cliché e rendono definitive le frasi smozzicate dell'avventura. Nel 1962 c'era lo sguardo obliquo di Little Aloha, nel 1978 purtroppo l'ambizione di stravolgere i disegni secondo altri codici avanguardistici, profili classici, triangoli e tangenti per affollate «cosmologie*. Ecco per fortuna le mensolette di Wesselwann appese al muro, piccoli altarini domestici, con radio, orologi, vasetti di fiori, nati con la polvere dell'impazienza quotidiana. Ecco, meno male, i quattro portasapone di Jim Dine che sporgono dal muro come mani infelici e offrono intoccabili saponette colorate. Di fianco due tavolozze enormi sono collegate da un tubo di stufa che va a perdersi chissà dove portando perfide esalazioni. (Adesso Jim Dine s'è dedicato alle vestaglie, le dipinge come frettolosi arredi sacri). Statue, gelati Per il nostro animo primitivo, la provocazione più franca della Pop Art si condensò in Claes Oldenburg, rifacitore allucinato e scrupoloso di oggetti comuni. Si ritrovano con piacere nella sala di Oldenburg il Roast Beef del 1961, appeso sanguinolento alla sua corda, il Gelato del '62 che non si scioglierà mai nella sua plastica insulsaggine, le Carni del '64 esposte ordinatamente come nella vetrina di un salumaio. Peccato che non ci sia il Telefono di Oldenburg, un apparecchio enorme di gomma, sfatto e sgonfiato dalle conversazioni e dalle bollette eccessive (lo regaleremmo volentieri alla Sip). Ma in compenso c'è una bellissima raccolta di Cicche, torturate e attorci-, gliate da mani nervose sul piattino di vetro. Poi ci sono, degne di grande rispetto, le statue carnevalesche e funebri di George Segai. Un bel signore amman figliato di azzurro con mosche- ' ra di porco fa parte di un gruppo pensieroso in The costume party ('67). Argentato e lunare accanto alle sue macchine è il Dentista, come se aspettasse le Ragazze degli Anni Settanta che affiorano dai calchi con un contorno di rubinetti oppure si appostano davanti a porte socchiuse sul nulla. L'ultima opera di Segai è una scultura per sala d'aspetto, due lunghe panche con tre persone bianche distrattamente sedute. Se aggiungiamo anche la porta aperta di James Rosenquist e la sua epifania di bottiglie, abbiamo nominato tutti gli artisti raccolti nella mostra per iniziativa dell'Istituto di Palazzo Grassi e dei soci promotori. Quando la Pop Art 'Storica» arrivò alla Biennale di Venezia nel '64 era un'avanguardia vecchia di qualche anno, aveva radici negli Anni Cinquanta inglesi e un traguardo memorabile nel '62 di New York. Alla famosa mo-\ stra della galleria Sidney Janis (31 ottobre 1962) Oldenburg, Warhol e compagni si presentarono come nuovi realisti. Avevano avuto anche altri nomi, come neodadaisti e kitschnlks. Un dibattito, mostra perdurante, consacrò il nome di Pop Art e prese atto della momentanea «onda- ta di costernazione» tra i mercanti. David Bourdon nel catalogo dell'esposizione veneziana fa opportunamente un bilancio critico di quell'anno cruciale.«Durante un certo periodo i mercanti d'arte non seppero che cosa esporre, e molta gente non era più in grado di distinguere tra un'opera d'arte e una che arte non era». Infatti gli oggetti comuni, le immagini della pubblicità e dei fumetti avevano preso il posto dei presunti prodotti artistici, come parafrasi, derisione e celebrazione del consumo. Bourdon fa una cronistoria del '62 confrontando fatti pubblici e popartistici: i fumetti di Lichtenstein e il primo americano in orbita, il suicidio di Marilyn Monroe e lo scontro tra astratto-espressionisti e Pop, la crisi di Cuba e i quadri di Robert Indiana intitolati Mangia e muori. Adesso i portatori di scandalo sono fuori della politica e giungono a Venezia un poco asettici e meditabondi, con un mercato sfavorevole (la Pop quasi non si vende) e il bisogno di fare l'esame di coscienza. Wesselmann: «MI irrita la Pop Art per quello che è venuta a significare, una specie di cultura della Coca Cola. Non mi va questo, direi che l'aborro, perchè io provengo da una tradizione». Warhol: «E* facile far delle critiche. Anche a me, per esempio, succede di stroncare' un film, ma quando se ne è girato uno, si comincia a comprendere quanto è difficile». Segai: «Ora lavoro in maniera diversa. Sperimento non In modo naturalistico, ma come piacere visivo, e ancora come spazio Interiore». Oldenburg: «Non penso che 1 miei monumenti sopravviveranno. Penso che l'unica cosa che può sopravvivere sia un disegno». L'autocritica ha ammansito i popartisti, la celebrazione annulla lo scandalo di una volta. Alla vernice della mostra veneziana perfino i più tradizionalisti tra gli invitati di Palazzo Grassi hanno potuto guardare con benevolenza gli oggetti oltraggiosi di Oldenburg. Solo il mercato potrà recuperarli, se con i ricordi riprenderanno vita anche le quotazioni. Molti collezionisti sperano nell'inevitabilepena del contrappasso. Pace fatta L'inaugurazione ha sancito, secondo rituali veneti, la pace coi vecchi provocatori. Collezionisti, politici e managers avevano gli occhi lucidi. Con i coordinatori (Attilio Codognato e Lauro Bergamo) hanno parlato l'avvocato Valeri Manera, ex presidente degli industriali inventore dei Premio Campiello, presidente di Palazzo Grassi; il ministro Bisaglia, leader della de veneta; il vicesindaco comunista di Venezia, Pellicani. Oltre gli spigoli polemici è stato un rito abbastanza ecumenico. Anche la Bmw, fabbrica di automobili che sponsorizza la mostra, ha ricevuto pubbliche parole di lode. Inevitabilmente nell'ingresso di Palazzo Grassi sono esposti due modelli Bmw decorati popartisticamente da Warhol e Lichtenstein. Sì, vent'anni sono lunghi. Usciamo da Palazzo Grassi e ci sediamo a un tavolo di ristorante. Abbiamo davanti oggetti comuni e piatti d'ordinaria amministrazione che per il contesto (Venezia) e il prezzo assumono il ruolo di prodotti irripetibili e irriden-, ti. Per un momento, ci sembra che lo scherzo della Pop Art non sia mai finito. Solo, abbiamo scoperto il trucco; tra i visitatori e i collezionisti non c'è più differenza, tutta la Pop Arte storica. Quel è stato, per noi visitatori comuni, il merito 'politi¬ co* di questa avanguardia? Magari di averci fatto scoprire le cose che credevamo di conoscere, di avere registrato un'euforia collettiva (il consumismo, ma anche la nuova frontiera) che adesso sembra perversamente mutare di segno. E' vero, la Pop Art suggerisce Germano Celant, è stata funzionale alla società che credeva di avversare. Ma anche le è stata superiore, jperché," come dice Barthes,«ha imposto al nostro sguardo una distanza». Stefano Reggiani Venezia. Una sala della mostra «Pop Art, evoluzione di una generazione» inaugurata ieri a Palazzo Grassi (Tei. Cameraphoto)

Luoghi citati: Cuba, New York, Venezia