L'INCENDIO DEL «CORSO» E LE MALATTIE DI TORINO di Guido Ceronetti

L'INCENDIO DEL «CORSO» E LE MALATTIE DI TORINO L'INCENDIO DEL «CORSO» E LE MALATTIE DI TORINO Per un cinema bruciato Sarà stato più di venti anni' fa, l'ultima volta che andai al cinema Corso. Quando vado a Torino per qualche giorno, ho di meglio da fare che ingaglioffarmi davanti a un brutto film. Ma avevo rispetto per quel magnifico locale, l'ultimo bel Cinematografo di Torino. Si respirava il decoro, si godeva il sontuoso, tutto per poca lira. Nel Quaranta, un posto di platea costava quattro-cinque lire, e per quella somma — di cui tutti, eccetto pochi infelici, disponevamo — Amedeo Nazzari, regìa del grande Blasetti, rivelava a noi adolescenti il corpo della donna, scoprendolo, bianco, irraggiungibile, fino al pube. Gli Edipi si scaricavano. Quello era cinema! Fu allora che le Autorità, giustamente preoccupate, introdussero il celebre Vietato ai minori di sedici anni, che costrinse ad alterare l'anno di nascita sulle carte tutti quelli che non l'avessero già fatto per poter frequentare, a tredici e mezzo, le case innominabili di via Massena e di via Michelangelo. Insieme al Corso, il fuoco si è mangiato anche la pista di Castellino, di cui ho bellissimi ricordi, per averci vinto più volte, elegante nelle figure, ariele nei calcagni, appassionanti gare di tango, in compagnia di torinesi straordinarie, migliori delle bonearensi del quartiere di Evaristo Carriego. E restano ancora moltissime cose belle, a Torino, capaci di far gola al fuoco! Non le nomino, perché gli inviati di Shiva e di Thanatos sono lettori attentissimi di giornali. * ★ Ma chi sarà stato il demolitore autorizzato di quell'altra splendida sala del migliore Art Nouveau, il cinema Ambrosio, dov'è oggi un bunker disperato per topi in trappola? Erano non so quanti metri cubi di stucchi squisiti, dove sognare tutto quel che il cinema era in grado di eccitare di sogni, che non era molto. Nel Trentaquattro era stato raso, da furibondo piccone progressista, il Ghersi, che non vidi mai, perché a sette anni mi accompagnavano al cinema non più di tre volte l'anno, in sale economiche, a vedere Shirley Tempie, la Bambina Prodigio, di cui era obbligatorio innamorarsi stupidamente, immaginando un abbrutito futuro coniugale accanto al Piccolo Colonnello e a Capitan Gennaio. Nel Quarantadue, spenzolò carbonizzato su piazza Bodoni, dove scorreva un orinatoio pubblico malfamato, lo scheletro del Balbo, ex buon teatro degradato a ricettacolo di film. La bomba veniva dal cielo, messaggio di saluto di un nemico amato, che aveva giurato di distruggere tutti i vecchi teatri e i cinema di Torino. Il Balbo era uno stadio, la sua buia galleria ricercata dai pellegrini d'amore in brache alla zuava e capelli taglio Buzzichino, paganti il biglietto a melisende che prima di sedersi andavano con soave discrezione a togliersi dalle labbra il rossetto. Fra i teatri, bruciarono l'Alfieri, il Chiarella, il Maffei, sparirono il mirabile Gianduja, il cui botteghino ci tuffava subito nel secolo XVID, l'elegante Teatro di Torino, il crepitante di gambe Fortino, e il delizioso Rossini, dove avevo fatto appena in tempo ad ammirare la rivista dialettale di Mario Casaleggio e la sua interpretazione, degna dello sregolato Kean, delle Miserie di Monnii Travet, autore Bersezio, lo Shakespeare delle Vanchiglie. Miracolosamente, il Carignano sfuggì alla cieca furia di Ate. * ★ Ma cinema e teatro tenevano bene sotto l'uragano. Non gli mancavano, esenti da leva, giovanissimi spettatori. Riempivamo di film nazionali, tedeschi, e perfino ungheresi, tutto il meglio dell'Asse, i nostri ozi scolastici. La gag di sonorizzare un bombardamento aereo con la cavalcata delle Walkirie, venuta fuori oggi come novità vietnamita, appartiene a un film di Stukas in picchiata, ne sono più che sicuro! E di prelibati avanspettacoli (Italia Carino! Aliberti! Franco Domina! Elena Ciabotto!) formicolavano le periferie, allora raggiun gibili a piedi, dall'Adua al Frejus. Ne uscivamo fradici di barzellette, e qualcuno di noi scriveva poesie su leggendari amori con ballerine, credendo di essere il primo a trattare in sciolti il difficile tema. I due anni dell'occupazione tedesca furono rallegrati di continuo da Mario Ferrerò, che inondava il teatro Romano, rimasto intatto perché scavato nella roccia, di umorismo piemontese irresistibile. Il suo sketch dell'Alpino, ripetuto a richiesta del pubblico fino al suo ritiro dalle scene dopo cent'anni di trionfi, era memorabile. A Mario Ferrerò scoppiava in corpo un'anima aristofanesca, e riusciva a far ridere anche il più scettico, il più imputridito nelle tristezze. Invece Nestore Aliberti era per intellettuali, un vero Buster Keaton di borgo Dora, la bombetta, la balbuzie, la giacchetta stretta a quadrettini, la figura altissima, battute rigorosamente insipide . Bisognava cogliere bene il lampo di quelle insipidezze, per goderne pienamente. Ridevano anche i soldati coi geloni del Don, e le brigate nere, ma non essendo intellettuali non coglievano il lampo e non so che cosa, di Aliberti, li facesse ridere. * ★ Tra i grandi, gli esordi all'Ideai di Dapporto, che attaccava sempre con dono, eccezionale ouverture; di Tognazzi; i costosi àpici di carriera di Nuto Navarrini, l'estremo saluto di Isa Bluette, prima che l'Alfieri scendesse a Pluto. Su Navarrini pendeva addirittura, si diceva, una condanna a morte come fascista pericoloso. Fu risparmiato perché insostituibile. Non eravamo mai stanchi di ridere, e le mazzette dei botteghini si esaurivano presto. La meraviglia è ricordare Torino come, di notte, città tra le più tranquille e sicure. Tra Quarantacinque e Sessanta è stata sicurissima. C'erano le solite due o tre mondane assassinate tra settembre e novembre, lavoro di triviali licantropi, e qualche omosessuale che si avventurava in piazza d'Armi o intorno al muro della Tesoriera in compagnie disperatissime che erano per lui la ianua coeli, era trovato senza l'orologio e con la testa fracassata. Quando fu ucciso, in casa, un ragioniere di nome Pavanato, il sogghigno pubblico chiamò, per un certo tempo, pavanati tutti gli extraterrestri dell'amore. Ma tutto questo ce lo introduceva in casa (in case ceratissime) la nera della Stampa, su cui soffiava abilmente il vecchio stregone Giulio Debenedetti. Un tentativo cinematografico di ambientare a Torino una storia criminale, prima di Frutterò e Lucentini, abortì miserabilmente. Girato a Madonna di Campagna, segnalava un cadavere nei pressi di ponte Mosca. Faceva più ridere di Aliberti. Era bellissimo camminare, di notte, da via Garibaldi alla chiesa di San Vito, da Porta Nuova alla frontiera della Venchi-Unica, senza dover rabbrividire del silenzio, della macchina improvvisa, di due che sostano davanti a un portone. Eppure le previsioni, verso la fine del coprifuoco, erano catastrofiche: la guerra avrebbe generato un dopoguerra di intensi crimini, di enormi rapine... Niente affatto! E' con la pace, e grazie alla pace, che il crimine si è strenuamente moltiplicato! Soffocati dalla piovra Pace, i giovani si sono dedicati all'omicidio, sempre più politico, cioè più fatuo, con l'unica mano rimasta libera dai laboriosi tentacoli. E' impressionante questa Torino che l'ora notturna desertifica, come Edom e Moab in una maledizione di profeta... Cosa orribile questa paura che ha raggiunto, pietrificato, avvilito tutto... Enorme balena nera con un milione e mezzo di ingoiati, città dai confini divelti. Se un amico non ti piglia sulla sua macchina, dopo cena eviti qualsiasi incontro. L'auto ha trionfato, come strumento del crimine e salvagente, nello stesso tempo. Verso sera, tutti affrettano il passo; quando spunta tra i fumi il sole, bisognerebbe fermarlo, come a Ge- rico- * * Mi tira per il collo una visione. Quando torno a riaggirarmi per Torino, due o tre volte l'anno, non ritrovo soltanto certi fantasmi sottilmente poetici del perimetro storico, dove una visionaria bohème meridionale sventola adesso come un trionfale fungo sopra la grigissima vecchia scorza cittadina: riaffiora, come se la ricordassi, nella sua pesantezza di famosa caserma carignanesca, la lontana città monarchica e amministrativa. Mi parla e mi dice che averla i torinesi tradita è stata l'origine di tutti i mali dello Stato unitario. La vocazione fondamentale di Torino era burocratica, giudiziaria, militare: una vera capitale. Insomma, nel 1861 l'Italia aveva la sua capitale, in cui moriva l'unico grande uomo di Stato che sia stata capace di generare in tre o quattrocento anni di storia. Ma no, bisogna¬ va seguire a Roma quel guru fanatico, quel micidiale apostolo di cretinismo di Mazzini! — A Roma la capitale! — Così Torino si è lasciata strappare le robuste coglie a vantaggio della cloaca pontificia, e ci ha tuffato tutta la nazione, e adesso non andatemi a sottilizzare sulle ragioni del nostro perpetuo disastro di nazione dal timone ubriaco, in corsa oggi verso la trappola russa e un metaforico e letterale sbranamento civile. Roma era il male da schivare; il Piemonte è andato là a sacrificarsi come un Remo idiota. Consegnare lo Stato ai funzionari meridionali! Da coprire i torinesi di vergogna, per secoli! Il Treitschke, eccellente biografo di Cavour, aveva già visto e denunciato (da Berlino!) il pericolo fatale di un meridionalizzarsi dello Stato italiano. Ma che il male arrivasse fine a questo punto! Che tutto lo Stato dovesse un secolo più tardi funzionare quasi esclusivamente per disastrogena manodopera intellettuale (anche volenterosa, ma senza stoffa!) romano-sudista... Amo il Mediterraneo, oh molto più del Piemonte, ma il senso dello Stato è nordico, senza palma né ulivo. Se Israele fosse retto dagli ebrei magrebini, dubito che esisterebbe ancora. E quanto insulsa la dottrina operaista, il dogma della vocazione industriale di Torino, una vera scemenza... Gli è stata inoculata, e non in dose vacci- nica, la grande industria, ma dov'era la vocazione? Le città manifatturiere si riconoscono subito: Milano, Lione... Ma Torino era esercito, magistratura, governo, perfino, da ultimo, arte, come lusso di un sorriso. Ecco l'evento carico di senso: un ufficiale di cavalleria, sceso dal cavallo, uscito dall'esercito, si mette a speronare l'automobile; e la ex capitale dietro. Andava nel senso della storia, che punta sempre al disastro. Smantellare una capitale per piantarci catene di montaggio... Non bisognava regalare al papa automobili in cambio dello Stato miserabile che gli veniva tolto, ma lasciarlo asfissiare laggiù, tra i miasmi di una colossale decomposizione spirituale, fine più interessante, nella sua cupezza, 'ilio sfringuellare ecumenico in-cui un papato robotico va ripetendo a tutto l'orbe, a volte trascritti per complessi scoutistici, i luoghi comuni del progressismo più stolto. ★ * E adesso va ad arginare due o tremila mafie straripate, ricaccia indietro lo sciame furibondo dei ricatti sindacali, provati a contrattaccare con la durezza necessaria sul fronte delle aggressioni criminali, in cui si disegna a poco a poco un'occupazione militare invisibile, che non cesserà i suoi attacchi prima che tutte le mine deposte siano state fatte saltare. La legge! Una pastiglia Valda venduta già liquefatta... Una classe politica sublime! Da repubblica platonica! Da Discorsi sulla Decal Guardateli con quanta arte secernono le loro crisi di governo... Uomini simili, non si ha voglia di nominarli: dire la classe politica può bastare. Il Torinese s'inguscia. Gli è svaporato di mano lo Stato. Perderà anche l'industria, che sta passando a poco a poco allo Stato meridionalizzato. Le belle case lucide si muniscono di spie elettroniche, ma il ladro e l'assassino passano dappertutto. Il troppo denaro accumulato è ripreso dal mondo sotterraneo. Però questo è anche il momento aureo, fortissimo, delle tentazioni e dei piaceri privati, del tuffo nel magico e dei viaggi nel tempo e nella morte. Credo si debba approfittarne, aTorino o in qualunque altro luogo. Saranno pochi anni, ma di agonie deliziose. Il Torinese non perderà l'occasione, questa volta. Resta in mano all'ex guerriero taccagno e bigotto, liberale e sarcastico, un bel ventaglio di svaghi: fra tutti, principali, lo Spiritismo e la Gola. Nel Quaranta la città era povera di piaceri. Con una Cena delle Beffe toccava già lo zenit. Ma oggi, accidenti, è ben fornita. Brucia il Corso, resta la tana con la moquette, il vino astigiano del 1919. L'abbondanza di piaceri privati rende tollerabili qualche incendio, qualche sparo notturno, il franamento fatale della vita pubblica di cui arriva il rumore da un'agorà lontana. Guido Ceronetti