Vito ha trovato l'America con i pugni di Gian Paolo Ormezzano

Vito ha trovato l'America con i pugni ANTUOFERMO SI BATTE OGGI A LAS VEGAS CON MINTER PER IL TITOLO DEI MEDI Vito ha trovato l'America con i pugni La sua è la storia dell'emigrante povero, coraggioso e sbruffone - «A Brooklyn ho fatto il muratore, il macellaio, il facchino. D'inverno mi lasciavano a casa perché ero italiano» - Ora rifiuta il passaporto americano: «Mio padre mi ucciderebbe» - Poi ha cominciato a dar pugni: «Lo faccio anche per mio fratello che venne con me in America e morì di cuore, povero Cristo» - Il suo sogno, finir la carriera con un incontro a Bari, alla Fiera del Levante NEW YORK — La scenografia e la sceneggiatura in cui si muove Vito Antuofermo, ventotto anni, pugile campione del mondo, pugliese di Brooklyn, sembrano cosi convenzionali da apparire inventate per il giornalista. C'è proprio tutto delle migliori storie disperate, con un discreto presente da palpare e un lietissimo fine alle viste. C'è la storia italiana, matta e dolentissima, mescolata bene con quella americana, cosi che sta giusto ad Antuofermo il soprannome di Rocky III. Gli fu dato da un giornalista statunitense al quale, il 30 novembre scorso, a Las Vegas, restavano ancora alcune righe da riempire, nell'articolo dedicato soprattutto a Ray «Sugar- Léonard, che quella sera era diventato campione del mondo dei welters. Quella sera Vito Antuofermo, in sottoclou, aveva pareggiato contro Marvin «Marvellous. Haggler, negro di classe lucente come la sua crapa pelata, ed aveva così trattenuto dentro di sé, dentro il suo disgraziatissimo corpo da brevilineo insaccatosi in se stesso per le troppe pastasciutte e la poca carne,, il titolo mondiale dei pesi medi, il più classico. Il 30 giugno di quel 1979 Vito aveva preso il titolo a Montecarlo, contro il pronostico e contro l'argentino Hugo Corro, detentore. Un match definito «rissa penosa*, tanti pugni, una vittoria «paesana* quella del pugliese di Palò' del Colle, provincia di Bari. Lo splendido, «Marvellous* Haggler doveva ridare giustizia alla categoria. Ma a Las Vegas Antuofermo ha resistito, ha restituito tutti i colpi, ha pareggiato: mentre in ospedale gli davano ventisette punti, suo padre Gaetano, una specie di Franco Franchi spostato a New York, finiva di insultare la stampa statunitense che aveva snobbato il suo Vito, baciava sulla bocca James Caan l'attore, tifoso dell Italiano, e riprendeva a raccontare il figlio ai giornalisti. Nasceva insomma, al secondo incontro per il titolo, la storia di Rocky III. Lui, Vito Antuofermo, accetta in pieno la storia, anche se non sogna di essere se stes¬ so sullo schermo. Casomai si affiderà ad un altro Stallone: «Mettere in pellicola la mia vita — dice in un italiano incerto e brutale, efficace almeno quanto il suo inglese — e fare un film straordinario è la stessa cosa, basta raccontare tutto, le mie verità sono uno spettacolo». L'America lo sta scoprendo, oggi a Las Vegas Vito di Brooklyn boxerà, sempre par il titolo, contro Alan Minier, l'inglese che ha scaricato sul¬ la testa di Jacopucci pugni mortali e innocenti. L'Italia sportiva sembra ancora rinunciare, per una sorta di snobismo, al culto ufficiale di questo uomo forte e puro, che pure ha boxato anche da noi e che ancora rifiuta il passaporto statunitense: «Me lo dicono tutti, a Brooklyn, che farei meglio a diventare americano, ma io non me la sento ancora, e poi mio padre mi ucciderebbe. Io sogno di chiudere la carriera con un incontro a Bari, alla Fiera del Levante, e i miei di Palo del Colle che arrivano a piedi, e io che dopo decido di fermarmi 11, e convinco anche mia moglie, che parla solo inglese ma è tutta siciliana». A Brooklyn che gli offre trionfi di quartiere e tasse fa-' cili se la smette di essere italiano, Vito Antuofermo vive e si allena. Sta cambiando casa, da un condominio ad una villetta. La palestra si chiama Bath Beach Body Buil¬ ding, è un covo di culturisti dotatissimi («tanti muscoli, ma li stendo tutti con uno sguardo.;. Arrivare alla palestra, sul cui portale sta un enorme gorilla di cartone, è come entrare in un film di vecchio pugilato, di antico sport. Custodi italiani, solenni di gesti e affannati di parlata mista, timbrano tesserini, vendono magliette e pozioni vitaminiche. Il linoleum del pavimento è tricolore. I culturisti curano il muscolo, Vito mena gli sparring-partners («mi costano settantacinque dollari ogni nove minuti, li pago di tasca mia»; e suda e insomma si prepara per Minter. Dice Vito: «SI, è stata proprio una vita difficile la mia qui. Sono arrivato con la mamma e mio fratello Pasquale, papa stava ancora in Italia a fare il macellalo e il contadino. Io avevo quindici anni, ho fatto il muratore, il macellaio, il facchino, il meccanico. D'inverno c'era meno lavoro e mi lasciavano a casa,, perché ero italiano. Mi pie-' chiavo per la strada, davo pugni per non prenderne. Un poliziotto, mezzo italiano mezzo irlandese, mi ha detto che era meglio se davo quei pugni in palestra, cosi ho cominciato a fare boxe, trenta incontri da dilettante, due sconfitte, nel 1971 il professionismo, prima borsa settantacinque dollari, adesso sono campione del mondo, con quarantacinque vittorie, due pareggi e tre sconfitte: mi hanno battuto due volte spaccandomi il sopracciglio, una volta comprando 1 giudici.. Nel mordo dei pugni è celebre perché non va mai a ter-' ra: «Non c'è nessuno che possa buttare giù un vero pugliese». Contro Haggler gli esperti di noble art l'avevano dato battutissinio, prima e anche dopo il match: ma i giudici hanno premiato coi pareggio, che lascia il titolo a chi già ce l'ha, la sua voglia di battaglia. «Ho visto e rivisto rincontro in film, lui fa tanta scena, i colpi veri sono 1 miei». Sta rifinendosi come perso-' naggio, se ce la fa con Minter, dovremo accettarlo in pieno anche in Italia. E'il tredicesimo italiano campione del mondo, sembra il più duro, il più povero e forte. Ogni sera si copre la faccia di sangue e siero di vacca, per irrobustire la pelle: «Puzzo come il diavolo, mia moglie scappa via». Ha conosciuto la sua donna ad un ballo di italiani, hanno' già due figli, Lara di due anni e mezzo e Vito junior di pochi mesi, ne faranno altri. Si racconta tutto, abbassando la guardia: «Bevo vino, faccio l'amore con mia moglie nei giorni giusti. Non fumo. Non ho vizi segreti. Lavoro alla Coca Cola, faccio pubblicità due volte la settimana, mi pagano bene ma se la Fiat mi dà un buon lavoro mi sposto in Italia. Ho due auto, qui è il minimo. Non sono più povero, non sono ancora ricco, la ricchezza in America comincia col milione di dollari. A Las Vegas ho preso una borsa di' un quarto di milione, ma il quaranta per cento va in spese, poi ci sono le tasse. Comunque ho di che comprare una bella casa in Italia a papà e mamma, questo conta». Sostiene di non aver paura di nessuno: «Minter è più forte di Haggler, più forte come fisico. Ho parlato con lui di Jacopucci: è la vita, non ci si deve pensare troppo su. Batto anche Minter, lo sento. Io in otto ore di aereo ho cambiato mondo, da Palo del Colle a New York, le quindici riprese mi fanno ridere. E poi 10 do pugni anche per i disperati delle Puglie, anche per mio fratello Pasquale che venne con me in America e mori di cuore sei anni fa, povero Cristo di fratello mio». E' convenzionale, forse banale, certo sincero. Firma in italiano le fotografie: «Sportivamente, Vito Antuofermo». Ha un allenatore chiamato Panama, un negrone sfasciato e allegro. «Non mi sento debitore con l'America, sarei diventato campione del mondo anche in Italia. Comunque sono con Carter, contro Mosca 80. Le cose importanti le penso in dialetto, non in inglese. Qui pago le tasse, sono In regola. Senza la boxe ero in prigione, è la boxe la mia seconda patria. Giornalista, scrivi tutto e scrivi giusto». Va a messa ogni domenica, al cimitero dal fratello ogni mese. E' contro il femminismo, ha idee tagliate con l'accetta, anzi con la mannaia che usava per fare a fette buoi e cavalli: «Olà, a Palo del Colle, io avevo dodici anni e lavoravo con mio papà hi' macelleria». E' un manicheo terribile, tutto il male sta dall'altra parte, e ogni tanto 11 male si fa carne e diventa uno da pestare sul ring. Trova sentenze scolpite bene: «Essere cattivo è difficile almeno come essere buono e intanto è un po' necessario all'uomo: io riesco a essere cattivo solo sul ring, mi pare un successo». Dicono che faccia molta elemosina, e che intanto sia capace di sgarberie da uomo di Neanderthal. Due medici amici assistono il suo fisico, vegliano i suoi mali di testa: «Decideranno loro quando dovrò smettere, me lo diranno e io farò ancora un incontro, quello di Bari». Gian Paolo Ormezzano