I veleni razzisti

I veleni razzisti ISRAELE, RICORDO DELL'OLOCAUSTO I veleni razzisti Il vento di Gerusalemme è terribile. E la mattina — 15 febbraio — in cui mi reco a visitare il «Memorial Hill», la collina della rimembranza dedicata all'olocausto ebraico nel mondo, vento e pioggia si uniscono con sapiente implacabile intreccio. Nessuna automobile riesce ad arrivare alla porta del monumento ebraico dedicato ai sei milioni di vittime del nazismo; occorre percorrere a piedi un tratto di viale alberato, neanche tanto breve. Quel tratto separa il museo dedicato agli obbrobri dell'antisemitismo — museo-biblioteca, arredato con scabra semplicità, quasi un frammento di università anglosassone — dal monumento vero e proprio: una costruzione semplice e bassa, con pareti che sembrano fatte di pietroni caduti a caso, e un soffitto tanto basso e incombente da accentuare il senso di oppressione. Mi soffermo un momento nel museo-biblioteca-emeroteca. Ci sono, esposti su una serie di tavoli, accessibili alla lettura immediata, senza neanche lo schermo di una bacheca, i testi più orribili dell'antisemitismo, i classici del razzismo lontano e recente, le pubblicazioni di tutte le lingue in cui l'olocausto è stato preparato, anticipato, auspicato. Non esiste nel mondo una biblioteca più completa sul razzismo antisemita, in tutte le sue forme, in tutti i suoi rivoli. Edizioni di Gobineau e anche di De Lapouge; pagine di Drumont e anche di Rosenberg; i testi del delirio nazista ma anche le complicità della «Vita italiana» di Preziosi; le prime edizioni russe dei «Protocolli dei Savi di Sion», ma anche le riproduzioni e amplificazioni degli Anni Venti in Germania, lette e rilette e divorate da Adolf Hitler in quella biblioteca circolante di Monaco in cui il reduce dalle sedute esoteriche e mistiche della Vienna 1914 confermava e rafforzava le sue folli pregiudiziali antiebraiche. E la biblioteca è aggiornatissima, con l'attenzione implacabile degli israeliani. Segue anche le pubblicazioni, spesso semiclandestinc o dissimulate, in cui il razzismo ritorna, si riaffaccia, con sembianze magari adattate alle diverse legislazioni o alle diverse sensibilità dei vari Paesi. Israele, assediato com'è, sa che la minaccia razzista non è finita, che i rivoli di quell'antisemitismo di scuola (o di più scuole), registrati con puntigliosa diligenza nella biblioteca, continuano a intossicare interi Paesi e ad animare dottrine di violenza e di ster minio. Ci sono nomi insospettabili nel museo-biblioteca di Geni salemme. Quanti sanno per. esempio che Proudhon — l'i dolo di un socialismo umanisti co cui si voleva tornare qual che anno fa in antitesi a Marx — appartiene alla legione non onoranda dei profeti cieli'.uhi semitismo? Press'a poco negli stessi anni in cui Mazzini di fendeva i fratelli Wahl, gli israeliti svizzeri bloccati in un acquisto di terreni dalla legge discriminatrice del Cantone locale, Proudhon sottolineava che «l'ebreo non è né un agri coltore, né un commerciante, t un anti-produttore» e aggiungeva: «Si deve rimandare que sta razza in Asia, o s termi narla». E chi conobbe bene l'ansioso e confuso teorico della «proprietà come furto», e il gran nemico del Risorgimento italiano, sa che in privato egli si esprimeva ancora più duramente, definendo gli ebrei come i nemici della razza umana che avrebbero dovuto essere cacciati da ogni impiego. Un linguaggio non troppo dissim le da quello di Toussenel, il socialista utopista che veniva dal la scuola di Fourier e sognava un mondo comunitario aperto a tutti tranne che agli ebrei: interpreti del capitale finanziario, identificato col nemico dell'uomo. E dei valori classici legati alla campagna, alla terra (chi ha dimenticato V«Italia barbara» di Malaparte o del «Selvaggio»?). La complessità del fenomeno razzista, registrata in quella straordinaria e malinconica biblioteca di Gerusalemme, là accanto al tempio di Yad Vashem (nessun cippo, nessuna statua, solo una fiaccola eterna che brucia, e sul suolo, scolpiti senza ordine, i nomi dei campi di sterminio nazisti in Germa nia, in Polonia, in Russia) ri torna, con la stessa ricchezza agghiacciante di dati, in un libro stimolante uscito in questi giorni in edizione italiana pres so Laterza, ma già noto agi studiosi di tutto il mondo, «U rgMndveptsdcmtsssereprttsppcncvcascrtddgdvmatfsfiagmzoq razzismo in Europa - Dalle origini all'olocausto» di George L. Mosse, lo studioso della nazionalizzazione delle masse che divide il suo tempo fra l'Università del Wisconsin e quella ebraica di Gerusalemme, superstite egli stesso dalle stragi. Il razzismo, e non l'antisemitismo soltanto. Mosse dedica la sua attenzione a tutte le forme di discriminazione e di persecuzione razziale nel mondo moderno, alla genesi stessa, sul tronco deviato dell'Illuminismo, dell'idea di razza, come sintesi di orgogli o assiomi scientifici, come riflesso di esplorazioni e viaggi oltre Europa, come riflusso dell'ideale ellenico della bellezza contrapposto al modello dell'ebreo errante, mingherlino e usuraio, talvolta come ripresa della rottura fra giudaismo e cristianesimo, sull'altare del Golgotha. Se il razzismo nasce in Europa alla fine del Settecento, soprattutto in odio ai popoli di colore, l'antisemitismo si delinea soltanto a metà dell'Ottocento, con la sua carica sconvolgente. Il grido di Gobineau, contro la Palestina «miserabile angolo della terra», non è disgiunto da una specie di elegiaca ammirazione della prima razza ebraica, «una forte e intelligente razza di conladini e di guerrieri», che subisce un declino inesorabile a causa degli incroci razziali, «mescolandosi sempre più con popoli gravemente contaminati da elementi neri». Fino ad arrivare alla distinzione, e quasi contrapposizione, di De Lapouge fra borghesia ariana e borghesia ebraica: foriera di tutte le future discriminazioni. Coloro che alla fine del 1941 installarono in talune fattorie abbandonate le prime camere a gas e le mascherarono poi come docce, nella Germania nazista e nei territori occupati, obbedivano esattamente a quelle ispirazioni ideali che avevano segnato un solco incolmabile fra ariani ed ebrei. I 5 milioni 933 mila 900 israeliti, vittime, secondo metodi diversi, del nazismo europeo, furono uccisi in nome di una filosofia bestiale e delirante, che aveva ricevuto l'avallo di precise cattedre universitarie e di precisi filoni di pensiero. Il comandante del campo di Auschwitz, Rudolf Hòss, raccontava, senza vergognarsi, che guardando le lunghe file di uomini, donne e bambini avviati alla motte egli sognava la sua famiglia, il suo cane e i begli alberi di ciliegio. «Gli artefici della soluzione finale — commenta Mosse — si guardavano allo specchio della rispettabilità borghese e si compiacevano per quello che vi vedevano». Perfino l'antropologia si inserì, con le sue presunte arroganti certezze, nell'interno dei campi di sterminio. Un cattedratico «eminente», il professor August Hirt, ordinario di anatomia all'Università di Strasburgo, collaborò con l'assistente personale di Himmler, Rudolf Brandt, per misurare la conformazione cranica degli ebrei. «La guerra all'Est ci offre l'opportunità di correggere questo stato di cose». Le preoccupazioni di taluni scienziati del Settecento, che ricercavano lo «stereotipo», il modello virile, lo schema della bellezza classica, si riverberavano ancora all'interno delle camere a gas. Non a caso la politica eugenetica del nazismo aveva finito per piegare anche scienziati come Alfred Ploetz o Eugen Fischer. Era una forma di «assassinio per il progresso della scienza». Una tentazione ritornante in un mondo in cui il razzismo non è morto e neanche è diminuito il numero di coloro che pensano secondo categorie razziali. Non importa se oggi contro i negri e domani contro gli ebrei. Giovanni Spadolini