L'esploratore della kabbalah di Furio Jesi

L'esploratore della kabbalah SCHOLEM E I MISTICI L'esploratore della kabbalah Accade sempre più di rado che si possa dire di uno studioso: è senza dubbio il maggiore specialista vivente della sua materia. A meno, s'intende, che la sua materia non sia di fatto la briciola di una fettina piccolissima, tagliata in una delle già piccole, innumerevoli fette dello scibile. E' tuttavia lecito dire che Gershom Scholem è senza alcun dubbio il maggiore specialista vivente della tradizione mistica ebraica. Non una brìciola e neppure una fettina minuscola: ma una tradizione multiforme, millenaria, e — se vogliamo limitarci a un apprezzamento squisitamente laico — un patrimonio culturale amplissimo, estremamente complesso ed enigmatico, eccezionalmente «pesante» nella storia. Non ci si scandalizzi di questi superlativi. Troppo enfatici? Ma anche il profano che prenda in mano l'opera di Scholem sulle Grandi correnti della mistica ebraica (edita dal Saggiatore nel 1965) o la raccolta di studi La Kabbalah e il suo simbolismo (pubblicata ora da Einaudi nella traduzione di Anna Solmi), si trova di fronte due millenni di vivere, pregare, conoscere, agire, raccontare, dai tempi della gnosi ellenistica all'inizio del secolo scorso, quando Jonas Wehle, mistico «eretico» praghese, attribuiva pari autorità ai grandi mistici-maghi e ad Immanuel Kant. Sarebbe molto grossolano dire che in tal modo, per duemila anni, si giunse per tappe, trappole, sconfitte e vittorie, a conciliare fede e ragione, ma-, già e razionalismo illuministico, violenza taumaturgica del gesto del rabbino-mago ed energia del «Sapere aude!». Non ci fu nessuna conciliazione, innanzitutto perché non erano questi gli opposti, gli elementi in conflitto. Parole appropriate entro alcuni ambiti della problematica cristiana, fede e ragione significarono poco o nulla (o molto, ma di riflesso: per la necessità di fare i conti con gli altri) nell'ambito delle contese tragiche, spesso disperate, dentro il singolo ebreo o, all'interno delle comunità, fra ebraismo rabbinico «ortodosso» ed ebraismo «eretico». Sintesi di queste contese fu piuttosto il problema del sapere scrivere e del sapere raccontare: scrivere nella lingua sacra della Legge e della creazione (scrivere, anche nell'accezione più materiale della parola: non si può dimenticare che i libri scritti in ebraico e consunti tanto da non essere più utilizzabili venivano letteralmente sepolti); raccontare in quanto conoscere insieme. E, certo, scrivere e raccontare come pregare. Se questo fu il problema per eccellenza — scrivere la creazione; raccontar.!/ insieme nella creazione e dinanzi alla creazione — , si può intendere come di una simile «materia» possa esservi ancora un «maggiore specialista vivente». A differenza di altre competenze, questa impone cosi grande spazio al vissuto del singolo (oltre che alla sua erudizione, smisurata in Scholem), che il singolo sapientissimo, in cui la sapienza è interamente vissuta, può apparire a sé e agli altri portatore di una speciale corona. Ma il rapporto fra il singolo e la collettività è così stretto, che valgono qui alcune parole di Goethe: «Se qualcuno mi avesse posto in testa una corona, avrei trovato la cosa naturale. Eppure proprio per questo io non ero che un uomo come gli altri». E la corona del «maggiore specialista», la corona del giorno lavorativo, si rivela la corona della «regina Shabbàt»: la corona con cui il Sabato, il giorno non lavorativo, fa il suo ingresso, aprendo alla collettività intera il medesimo spazio regale di non-lavoro/preghiera. ^ Scholem indirettamente ci spiega la sua capacità di essere oggi, 1980, il maggiore specialista vivente di una «materia» — la mistica ebraica —, quando ne La Kabbalah e il suo simbolismo ci racconta, appunto, una storia. Nato a Berlino nel 1897, studente di filosofia, filologia semitica, matematica, addottorato a Monaco nel 1922, «salito» (emigrato) a Gerusalemme nel 1923, l'ottantatreenne presidente dell'Accademia della Scienze d'Israele ci racconta «una storia molto modesta, ma vera, capitata nel 1924 a un giovane che conoscevo bene...». La storia è palesemente autobiografica. Quel giovane, che Scholem «conosceva bene», venne a Gerusalemme nel 1924 e «vestito con i modesti panni della filologia e storia moderna... cercò di mettersi in contatto con il circolo degli ultimi' cabbalisti, che da duecento anni vi coltivavano la tradizione esoterica degli ebrei orientali». Ci' riuscì, trovò un cabbalista disposto a insegnargli, ma ad una condizione difficile da accettare da parte di uno scienziato moderno: «La condizione era tale che forse non tutti i miei lettori potranno indovinarla: era di non fare nessuna domanda». E' la condizione posta da chi sa di poter raccontare veramente, solo se nessuno gli chiede spiegazioni. Scholem ricorda impeccabilmente, a questo proposito, l'espressione di Schelling circa la mitologia: «una filosofia narrativa». Ed è una condizione che implica un raccontare puramente e sostanziosamente evocatorio: un raccontare eversivo nei confronti della stessa «passione delle domande» ebraica (come osserva Scholem); un raccontare come trasgressione di ogni forma di pensiero che debba essere costruito secondo il metodo della domanda e risposta: un raccontar» insieme, nella creazione e dinanzi alla creazione. Nella sua multiformità, la tradizione mistica ebraica conduce spesso a questo raccontare come trasgressione, e talvolta all'analogo, ma nella nostra lingua più aspro, pregare come trasgressione. E' il grande mito dell'uomo che accetta di calarsi interamente neìl'umano-qui, tanto da considerare le leggi dell'umano-qui appunto come leggi, come un quid suscettibile di trasgressione — ma non rinuncia alla libertà di trasgredire. Scholem dice che «il mito cabalìstico aveva "senso", perché nasceva da un rapporto pienamente realizzato con una realtà che, anche e precisamente nel suo orrore, ...poteva proiettare potenti simboli della vita ebraica, concepita come caso estremo dell'umano in generale». Nella condizione posta dal cabbalista all'allievo («non fare nessuna domanda») era già consegnato il primo segreto: nel raccontar.!/ ciascuno è «caso estremo dell'umano in generale»; nel tacersi — in chi scrive lettere non consegnate e in chi non cerca di riceverle — vi è il rischio del non umano, dei «casi medi» dell'universalmente umano quale mistificazione dell'uomo. Se si tratta di segreti, come sono quelli del «caro estremo» latente in ognuno, ogni domanda dev'essere un raccontare, ogni risposta un «Mi racconti la storia...?». Furio Jesi

Luoghi citati: Berlino, Gerusalemme, Israele, Monaco