La morte addomesticata

La morte addomesticata NEI MODELLI CULTURALI DAL MEDIOEVO A OGGI La morte addomesticata «La morte è il genio ispiratore della filosofia»: cosi pensava Schopenhauer, per cui tutte le religioni e le filosofie non erano altro che «un contravveleno alla certezza della morte». E pensava rettamente, se con filosofia si intende il radicale atteggiarsi di fronte alla vita e al mondo per reperirvi un recondito significato. Nulla più dell'incombere della morte spinge l'uomo a cercare un senso per la vita. Nella tradizione occidentale, sin dall'inizio, i filosofi si sono certo distinti anche per l'esigenza di chiarificazione concettuale, ma questo lavoro più tecnico non ha mai cancellato il filosofare come formazione di una «visione del mondo» (Weltanschauung), a cui nessuno può rinunciare. Si capisce cosi perché l'uomo non riesca mai a considerare la «morte» unicamente nella prospettiva biologica del «decesso». Non che sia impossibile uno studio scientifico della cessazione delle funzioni organiche nell'uomo come in ogni altro vivente: oggi sappiamo ben distinguere, per esempio, tra morte cerebrale, biologica, cellulare. Ma anche la fredda curiosità dello scienziato è scossa da altri problemi quando il «decesso» gli appaia nella luce della morte «sua» o, più ancora, di chi gli è vicino e caro. Come l'Ivan Il'ic di Tolstoi, anch'egli non ha nulla da eccepire di fronte al generico decesso del vivente, ma si ribella alla minaccia della morte che incombe su di lui. Né si deve gabellare per «scientifica» la risposta che l'uomo «forte», abituato alla freddezza della scienza, spesso dà a tale senso di minaccia. Il fare della morte un semplice trapasso biologico, senza terrori, da accettare con l'impassibile serenità che si ha davanti alle leggi della natura, non è un «risultato» della scienza che annulli l'angoscia personale; è, invece, già una risposta filosofica in nome di una Weltanschauung, che ha radici antiche (si pensi a Epicuro), e che nella sua polemica contro i miti della sopravvivenza e dell'immortalità crea nondimeno il mito per cui il senso della vita umana consisterebbe nella serenità della comprensione razionale. ★ * Questo è uno tra i tipi di risposta dati dagli uomini al problema filosofico della morte, l'ineliminabile possibilità dell'annientamento non solo della vita biologica, bensì anche della partecipazione a quel «mondo della cultura», in cui l'uomo si riconosce. Si comprende, dunque, come altri tipi di risposta, egualmente mitici, siano stati tentati: dalla visione, tipicamente religiosa, che fa della morte non una fine, ma per ogni individuo l'inizio di una vita autentica di là dal tempo, alla visione che nel trapasso scorge il riassorbirsi dell'individualità spirituale nella pienezza assoluta del Tutto. Alla luce di queste «figure ideali» dell'atteggiarsi radicale di fronte alla morte si può riscrivere tutta la storia della filosofia. Ma i non addetti ai lavori avrebbero sempre l'impressione di qualcosa di astratto; non coglierebbero la corrispondenza che le Wettanscbauungen hanno con la vita concreta dell'uomo. Far tralucere i temi filosofici negli aspetti dell'esperienza quotidiana ha maggior presa suggestiva anche per il caso della morte. Può rendersene conto chi, invogliato magari dal periodo quaresimale, abbia il coraggio di affrontare le oltre settecento pagine dedicate a questo tema, nel 77, dall'illustre storico francese Philippe Ariès e ora tradotte presso Laterza: L'uomo e la morte dal Medioevo ad oggi. Ariès, che già aveva anticipato alcuni risultati della sua quindicennale ricerca in un libro tradotto in Italia nel '78 da Rizzoli (Storia della morte in Occidente), è convinto che la, costanza di certi atteggiamenti globali non esclude le variazioni storiche. E queste traspaiono, più che dai testi teorici, da un complesso vario di documenti, che vanno dai cerimoniali dell'agonia e delle esequie al luogo dell'inumazione e al tipo delle tombe e dei monumenti funebri; dalle disposizioni testamentarie alle espressioni pubbliche del cordoglio e del lutto. Questo imponente complesso documentario, liturgico, letterario, epigrafico, iconografico, Ariès non l'ha solo ammassato ma l'ha fatto rivivere, da storico di razza, secondo ipotesi interpretative. D complesso dei comportamenti culturali circa la morte, dall'alto Medioevo ad oggi, di venta così una trama unitaria in cui leggere il gioco delle Weltanschauungen attraverso quello più corposo delle consuetudini e degli usi. L'uomo contemporaneo preferisce forse accostarsi al «genio ispiratore della filosofia» non direttamente, bensì mediante le forme ritenute più spigliate della storia e dell'antropologia culturale. Credo che ciò collimi bene con il modello odierno di comportamento di fronte alla morte, qual è delineato dall'Ariès dopo aver analizzato altri quattro modelli caratterizzanti i secoli dal V all'XI, dal XH al XV, l'età dell'affermarsi della scienza sino al Settecento, l'Ottocento romantico. ★ * Tali modelli non sono esclusivi e ve ne è traccia in ogni epoca; permettono tuttavia, con il loro prevalere in un certo periodo, di penetrarne l'inconfondibile «spirito del tempo». Sono modulazioni diverse di quattro «elementi psicologici», probabilmente presenti in ogni epoca della civiltà umana. Si tratta degli stati d'animo della coscienza circa la propria individualità, del bisogno di difesa dalla natura selvaggia, della fede nell'immortalità, della consapevolezza che il male, in multiformi aspetti, è presente nella vita. Il fenomeno della morte alimenta di continuo questi stati d'animo e spinge alle risposte sia teoriche sta dei comportamenti culturali, variabili secondo l'avanzare o il retrocedere di uno o più tra gli «elementi psicologici». D modello tipico dell'alto Medioevo, la «morte addomesticata», attenua il senso dell'individualità, sicché il trapasso, con la partecipazione stessa del moribondo, è accompagnato da cerimonie che sottolineano la solidarietà dell'individuo con la sua comunità. E' questa ritualizzazione che mostra la difesa della «cultura» contro il fatto più crudo con cui si fa sentire l'indomabile natura. Qui si radica anche la consapevolezza del male sempre presente, che per il cristiano è legato al peccato originale; mentre la fede nella resurrezione finale dell'uomo, nella sua interezza, rende famigliare il popolo dei morti, dormienti in tombe anonime accanto a quelle dei martiri e dei santi. Ma, a partire dal basso Medioevo, il modello muta perché si accentua la coscienza di sé e sempre più la morte campeggia come «la propria». Le iscrizioni biografiche sulle tombe, l'uso del testamento, con norme pie per la salvezza del testante oltre che per la destinazione dei beni terreni, indicano il variare anche della fede nell'immortalità Ciò che interessa, più che la risurrezione dell'Aomo lotus, è la sopravvivenza dell'anima individuale. Il sempre più acuto affiorare dell'affetto per il «caro io» e per la vita fa sì che si modifichi anche il tipo di difesa dalla natura selvaggia che imputridisce gli organismi deceduti, mediante il nascondimento del cadavere nel sudario cucito, nella bara o nel catafalco. Tale modello si prolunga certo oltre i limiti cronologici indicati. Ma lentamente, dal Cinquecento, si vanno attenuando i modi di addomesticamento della morte, che ritorna «vicina», selvaggia e fonte di «continua» preoccupazione, proprio mentre si vanno affermando l'invenzione scientifica e la sua applicazione tecnica. Ciò non è paradossale, poiché via via cedono le millenarie difese, diverse dalla scienza, che la cultura aveva eretto. Già nel Settecento si colgono gli anticipi del modello che è tipico oggi. Ma il secolo scorso, nella sua prima parte, ha ancora visto affermarsi il modello della «morte dell'altro»: qui il senso dell'individualità si trasferisce dal proprio io alle persone da cui non sopportiamo che la morte ci separi. E l'idealizzazione romantica della «bella morte» dell'amato, vivo nel ricordo, è la nuova difesa contro la brutalità del decesso naturale. Con l'appello alla «bellezza» si attenua la connessione tra la morte e il male. E' questa una delle vie attraverso cui si perviene al «capovolgimento» proprio del modello attuale, ove della morte si tace e la si nasconde. La società e la famiglia si estraniano dal moribondo a cui si cela il suo stato: per lo più, oggi, si muore in ospedale, magari irti di cannule e tubi; l'orrore dell'agonia e della «morte sudicia» è isolato in ambiente asettico. Le stesse cerimonie funerarie sono sbrigative e il lutto è caduto in disuso. La difesa dal «fatto» selvaggio la si ottiene tacendone, quasi vergognosi che la nostra orgogliosa convinzione di poter trionfare con la ragione di ogni male sociale e di ogni sofferenza fisica trovi uno scacco decisivo nella morte vittoriosa. I modelli di comportamento sono quelli che sono ed è vana ogni recriminazione. Ma il confronto dei modelli, permesso dall'Ariès, può farci riflettere quando ci sentiamo portati a considerare con superiorità le «ingenue» speculazioni degli uomini del passato. Assai di rado, il silenzio, che nasconde i problemi, è sintomo di maturità intellettuale e di saldezza morale. Francesco Barone

Persone citate: Francesco Barone, Schopenhauer

Luoghi citati: Epicuro, Italia