Antichi peccati di gola di Luigi Firpo

Antichi peccati di gola Cattivi Pensieri di Luigi Firpo Antichi peccati di gola E' annunciata a giorni la pubblicazione del libro di Piero Camporesi Alimentazione, folclore, società, una raccolta di saggi che si annuncia ghiotta non soloperché parie di gastronomia, ma perché esce dalla penna di uno dei più intelligenti indagatori del nostro mondo popolare e subalterno: villani e vagabondi, con i loro gerghi, i loro costumi, la loro difficile arte di sopravvivere. Leggo soltanto ora l'anticipazione che del volume imminente pubblica Tuttolibri (n. 214) e mi conforta trovarvi larga convergenza di idee, dall'orrore per la mozzarella al canto del cigno della cucina del buon tempo antico. Con pungente sorriso Camporesi evoca l'immagine delle folle urbanizzate, die per tutta la settimana si cibano di precotti alle tavole calde, di latte scremato, di yogurt alla frutta, di surgelati insapori, di fettine sbigottite per un attimo in padella (come tradurre l'ineffabile piemontese sburdla?;; ma poi, alla domenica, stivano la macchina di figliolanza e parentado, percorrono rovinose distanze e raggiungono le trattorie rustiche, affollatissime, in pieno caos, dove camerieri improvvisati sbattono loro in tavola caterve di vivande micidiali, vere coltellate al fegato, all'insegna della genuinità antica e della robusta cucina casereccia. C'è tuttavia in questa migrazione festiva un che di commovente, quasi un ritorno alle origini con tadine, ai cibi sani e forti di cui ancora si favoleggia in casa, manipolati da bisnonne sapienti con materie prime appena colte nell'orto, prelevate in cantina, in solaio, in dispensa. Un diverso modo di nutrirsi, perché diverso era il modo di vivere, al quale si guarda con nostalgia e nel quale ci si illude di potersi tuffare ancora per qualclie ora prima di tornare al cibo insulso, veloce, anonimo, dei giorni feriali Legata com'è, profondamente, alle suggestioni dell'inconscio: perennemente sospesa fra i due estremi penosi della fame e dell'indigestione; inquinata da paure di carestie o di crisi epatiche, l'idea del cibo suscita in noi angosce viscerali come i suoi detriti e sogni voluttuosi come i suoi aromi Poiché nella nostra età di sradicamento e di prodigiosa accelerazione delle mutarne culturali anche la gastronomia evolve (o si disgrega?) con rapidità sconcertante, uno sforzo per capire cos'è accaduto può aiutarci a ■ capire cosa ci aspetta. Perso che il libro di JeanFrancois Revel 3000 anni a tavola, messo in vendita poco prima di Natale, abbia avuto un notevole successo, ma si tratta di un libro di mera compilazione, garbato e curioso, ma del tutto superficiale. La letteratura gastronomica è infatti sterminata, tanto che un erudito come Vicaire ha dovuto compilare un grosso volume, solo per indicarne i titoli: manipolazioni culinarie, ricette dietetiche, liste di pranzi per tutte le occasioni e per tutte le stagioni costituiscono un'intera biblioteca, dalla quale è facile spigolare usanze, curiosità, aneddoti e persino aberrazioni strampalate e disgustose. Il guaio si è che la cucina cosi documentata è quasi esclusivamente una cucinu colta, raffinata, opulenta, una gastronomia per ricchi. Il suo problema non era tanto quello di ammannire vivande, quanto l'altro, di stuzzicare con un'ultima tentazione, con un sapore inedito, con una presentazione stupefacente, stomaci dilatati fino a scoppiare e palati assaliti ormai dalla nausea. Liste di cinquanta portate, carni impastate di spezie o incrostate di zucchero, sequele sema fine di arrosti, di pasticci, di ripieni, appartengono a una cucina fittizia e cortigiana, più spettacolare che appetitosa, cui poco importa l'umile arte sapiente di insaporire l'insipido, di nobilitare la vivanda vile, di armonizzare gli apporti di carboidrati e di lipidi con intuizioni pre-scientifiche straordinarie, perché il suo punto d'onore età nel raro e nello spettacolare: lingue di fenicottero, frutti esotici, neve compressa per rinfrescare i vini animali arrostiti interi dal cui ventre squarciato ai levano voli di colombe. Teatro, ostentazione di ricchezza, capricci per obesi dispeptici e annoiati. La vera storia della gastronomia non si trova in quei manuali cortigiani o in quelle descrizioni di banchetti pantagruelici. I suoi segreti sono stati trasmessi a voce e con l'esempio per secoli e secoli, da madre a figlia, con sapienza amorosa; i suoi incunaboli scritti sono comparsi forse un secolo fa, quando anche alle donne si consenti di imparare a leggere e scrivere, affidati a foglietti bisunti, a quaderni consumati dall'uso e presto distrutti Perché la gastronomia è arte dei poveri, nata non dalla noia e dall 'ozio, ma dalla necessità. I suoi fini primari furono quelli di escogitare comporti a basso costo, che saziassero e nutrissero mariti lavoratori, figliuoli in crescenza. Di qui le gloriose minestre di pane, di lardo, ■ dicavoli, di fagioli, un pasto intero nel piatto fumante, profumato di erbe selvatiche: di qui l'arte sottile di utilizzare i rifiuti e gli avanzi le trippe e le coratelle, gli zampetti e le testine, le lumache e le rane, i polipi e i mitili, mentre i ricchi morivano di gotta, gonfi di fagiani troppo infrolliti sotto piuma, di dolci troppo zuccherosi di spezie inutilmente stuzzicanti L'altro fine della cucina povera fu quello di accompagnare l'alimento base, il pane, la polenta, con qualche boccone di companatico sàpido, pungente, che facesse saliva: ecco la carne secca salata, la rossa polvere di peperoncino, il formaggio stagionato di pecora, il fortore diffuso e mordace dei cibi legati ad una austera parsimonia, a una fame endemica, allegramente avida di sapori quasi sempre negati Dimentichi di tutto questo, noi adesso chiediamo ai ristoranti di fornirci la zuppa contadina accanto alla Chateaubriand, la paniccia e la galantina, cosce di rane e caviale grigio. Ci illudiamo di poter mangiare impunemente ogni domenica il gran pranzo di nozze contadino, uno stravizio allegro che si ricordava poi per tutta la vita. Con stomaci ratrappiti dall'acqua minerale e dalla bracioletta ai ferri, ci illudiamo di tornare atleti e virili nell'illusoria opulenza dei cibi forti, che i nostri avi faticatori mordicchiavano a piccolissime dosi Forse un'età intera si è conclusa, son finite le basi genuine della gastronomia e noi stiamo attraversando, sconcertati e inappetenti, un momento di transizione: la nostra è la stagione dei polli pallidi, dei finocchi di legno e acqua, dell'insalata di plastica croccante. Poi anche queste imitazioni industriali cesseranno, avremo dimenticato i sapori, saremo pronti per la fleboclisi. D'altronde, anche se ci fossero le basi, non ci sono più in casa le donne disposte ad alzarsi alle cinque per metter la pentola a sobbollire sul fuoco. E cosi sia. All'una andremo insieme al selfservice ad espiare i peccati di gola dei nostri felici antenati

Persone citate: Camporesi, Cattivi Pensieri, Piero Camporesi, Revel