La musica amara di Marilyn Monroe di Massimo Mila

La musica amara di Marilyn Monroe SUCCESSO DEL COMPOSITORE LORENZO FERRERÒ ALL'OPERA DI ROMA La musica amara di Marilyn Monroe Nella vita della grande «bionda-oca-tutto-sesso» il quadro sconfortato d'una America troppo crudele Ottima interpretazione della protagonista Emilia Ravaglia, scene di Maria Siciliani e Uberto Bertacca DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE ROMA — L'America non finisce mai di sedurre e tradire, sedurre e tradire intere generazioni d'intellettuali europei, e forse italiani in modo particolare. L'immagine della vita moderna ch'essa propone è talmente esemplare e grandiosa, che non può evitare di restarne affascinato chiunque provi il gusto di vivere nella luce chiara del proprio tempo, e non rincantucciato nelle oziose nostalgie del passato o proiettato nelle utopie d'un nebuloso avvenire. Ma i grandi scrittori e i grandi film che Vittorini e Pavese ci hanno additato contenevano già tutti la critica del costume americano dentro il quadro entusiasmante di quel modo di vita. Il contagio ottimistico del «keep smiling» ci conquistava tutti e non illudeva nessuno. Bastava aver visto La folla di King Vidor o aver letto Faulkner e Steinbeck per sapere che cosa ci stava dietro, e prevedere il Vietnam e il maccartismo. Una nuova generazione fa adesso la stessa esperienza, com'è giusto che avvenga perché, per fortuna, la Storia non insegna niente e nei ricorsi della civiltà non esistono vaccini. Ed è singolare che il giovane compositore torinese Lorenzo Ferrerò, con la sua collaboratrice Floriana Bossi per il libretto, volendo disporre intorno al mito di Marilyn Monroe l'immagine grandiosa di quest'America che ora ha tradito anche loro, col Vietnam, con la Commissione per le attività antiamericane, con la persecuzione d'un dissenso stroncato assai più ferocemente di quello tanto più propagandato dell'altra superpotenza, abbia ricorso, forse senza nemmeno saperlo, al metodo che adottava Dos Passos nei suoi romanzi, di inserire dentro la narrazione un «collage» di documenti nelle rubriche ch'egli chiamava «occhio fotografico» e «filmgiornale». E' tipico dell'evidenza schiacciante che i fatti presentano nell'esperienza-America questo iperrealismo che tende a elimina¬ re la partecipazione consapevole dell'artista: la tentazione di sopprimere ogni intermediario tra il magma ribollente della vita moderna e l'immagine che se ne vuol proporre. Qui. nei due atti della Marilyn di Ferrerò non c'è nemmeno narrazione inventata: c'è solamente l'occhio fotografico, cioè il collage di reperti oggettivi, suddivisi (anche scenicamente) in due piani: a pianterreno una camera opprimente, che s'immagina satura di profumi, tutta rifratta e moltiplicata in specchi, un'alcova tutta mollezza di divani, piume, letti e vestaglie, dove si consuma in sei quadri il sacrificio della povera Marilyn, tenero agnello immolato sull'altare di quella durissima way of life. che frustra spietatamente ogni sua aspirazione a diventare, di oggetto, persona. Terribile droga Sul piano superiore dell'ingegnosissima scena ideata da Uberto Bertacca e da Maria Francesca Siciliani si accen-, de. dopo ogni quadro della sottostante ria crucis di Marilyn, un rettangolo luminoso che avanzando rapidamente in primo piano spalanca una specie di grande schermo tridimensionale nel quale si collocano le immagini dell'America amara, della civiltà crudele; manifestazione patriottica in Central Park, discorso di Mac Arthur alle truppe in Corea, la tradizionale procedura di un interrogatorio della Commissione per le attività antiamericane, rogo dei libri di Wilhelm Reich. lo psicanalista austriaco che. fuggito in America dalla persecuzione nazista, vi mori in carcere, scene di vita dei poeti della beat-generation, la disperata evasione nella droga, rievocata in un quadro scenicamente stupendo e impersonata nella figura di Timothy Leary. il dubbio proieta dell'LSD, condannato a 27 anni di carcere per possesso (possesso, si badi, nop spaccio!) di droga, brutale sopruso giudiziario per togliersi dai piedi un rompiscatole, su cui non si capisce com'è che non si commuovano le solerti prefiche di Sacharov e Solzenicyn; e infine, ciclicamente, ripresa finale del primo quadro, con inno nazionale, majorettes ed oleografico patriottismo di cittadini benpensanti in Central Park. Torinese, non ancora trentenne. Ferrerò non è. almeno per ora. uno di quei compositori che aprano nuove vie al linguaggio musicale. Anzi, sembra di poter dire che del linguaggio musicale a lui non gliene importa un bel niente. Prende quello che il suo tempo gli offre, e lo adopera secondo le esigenze d'un senso del teatro assai spiccato, anzi sorprendente data la sua formazione appartata e un po' libresca d'uomo di cultura, musicalmente quasi autodidatta (riconosce a suoi maestri, privati. Massimo Bruni ed Enore Zaffiri). Dice che ha contato molto per lui l'esperienza di John Cage (argomento della sua tesi di laurea), ma fortunatamente nella sua musica uno non se n'avvede. Tra le altre influenze ch'egli si riconosce, i nomi di Nono e di Bussotti sembrano i più giustificati. Totalmente estraneo gli resta lo sperimentalismo di Donatoni. Sciarrino e anche di Berio (ma a Cage egli attribuisce il merito d'avergli insegnato «l'amore per i suoni» e perla loro vita). Accettato quanto gli serve da ciò ch'egli chiama, in maniera significativa, il «bagaglio scolastico del giovane compositore», con quali mezzi si esplica principalmente il suo senso del teatro? Si direbbe, col recupero di due funzioni tradizionali della musica: il timbro (includendovi anche gli aspetti vocali) e l'accordo. Certo, non si potrebbe sostenere che l'avanguardia storica si sia mai dimenticata del timbro o labbia trascurato. Anzi, lo ha sviluppato lino a farne spesso il protagonista unico dell'invenzione musicale. Ma l'ha sviluppato tanto da trasformarlo interamente e portarlo lontanissimo dai suoi antichi significati. Ferrerò restii uisce a certi timbri e a certi impasti (il flauto, per esempio, ricondotto quasi a una innocenza ante-Gazzelloni-Afiisi/c: i clarinetti) il corredo di sensi antichi, brahms-ciaicovskiani che non avevano affatto perduto, ma che erano stati come accantonati. Il gusto dell'impasto timbrico va di pari passo, e in certo senso è la stessa cosa, col gusto dell'accordo. La coltre sonora che i legni (tra cui tre diversi clarinetti e saxofono) e gli ottoni stendono sotto l'aria di Marilyn «Night of the Nite» è di per sé un elemento tortissimo di suggestione. Crii accordi Quest'aria è il clou dell'opera: uno dei tre o quattro punti in cui il linguaggio musicale di Ferrerò si solleva sopra la media di una normale efficienza e abilità per segnare autentiche riuscite. Un altro e il poetico notturno orchestrale che funge da intermezzo e un altro il sensazionale finale dell'atto primo: un lungo, dolorosamente protratto duetto tra due persone che s'ignorano e che agiscono sui due piani distinti della scena, Marilyn nella sua ovattata alcova, e Wilhelm Reich, brutalizzato dalle guardie, accanto al rogo dei suoi libri. Le due vittime rappresentative della durissima way of life americana sostengono un lungo, straziante canto a due che chiude l'atto in maniera impressionante. E tuttavia si avverte un poco l'intenzione, e la consapevolezza, di sparare un colpo grosso. Invece l'aria di Marilyn sboccia davvero come un fiore, con la naturalezza felice, di un Bellini del 1980. Gran merito, anche, di Emilia Ravaglia. tanto bella nel raffigurare la cara bionda-oca-tutto-sesso. quanto brava nell'arrampicarsi senza sforzo fino ad altezze inaudite (nell'ultimo pezzo: un fa sopracuto), con una voce che resta sempre limpida, luminosa, e docilissima a piegarsi alle svariate tecniche d'emissione che la parte prescrive. Buone le prove del tenore Robert Dunié, alle prese con la parte anch'essa difficilissima di Wilhelm Reich. di Mario Basiola. che ha la vita un po' più comoda nell'intonare le concioni di Mac Arthur, e di Federico Trojani, cantante leggero nella parte del poeta Alien Ginsberg. Numerosi attori recitano nelle scene di vita americana rappresentate dentro il finto schermo cinematografico, ma spesso in concomitanza con l'orchestra, che Gianluigi Gelmetti ha guidato sapientemente, e col coro, istruito da Vittorio Rosetta. Sicché ha ragione Gelmetti. contro il parere riduttivo dell'autore che questa non sia tanto un'opera, quanto uno spettacolo con musica: macché: è un'opera bell'e buona, dove c'è anche chi parla, ma in fondo la parola parlata è non solo annegata dentro la sonorità dell'orchestra e del coro, ma si fa materia-suono essa stessa, pochissimo o nulla contando semanticamente. Della messa in scena e regia non si può dir che bene: non solo hanno risolto egregiamente il problema di coordinare e integrare i due piani su cui l'azione è distribuita (Marilyn e l'America crudele): ma là dove la stesura narrativa e musicale perde talvolta un poco d'evidenza, prendono il comando delle operazioni e sollecitano senza tregua l'interesse: esempio tipico la scena di allucinazione dei drogati, che alla lettura del libretto (e anche a un esame, almeno superficiale, della partitura) non parrebbe promettere molto di buono, e che scena e regia trasformano in un impressionante marasma di gesti imbambolati, rifratti in un gioco di specchi, con bellissimi colori, tali che anche i monotoni e ripetitivi lamenti del coro finiscono per assumere un valore d'ossessione ipnotica. Il pubblico, numerosissimo, ha decretato il successo dello spettacolo: pochissimi i contrasti, e prolungati, insistenti, gli applausi agli interpreti, compresi direttore, regista e scenografo, e all'autore. Massimo Mila