Ma chi ci insegnerà il latino?

Ma chi ci insegnerà il latino? Se diventasse davvero la lingua ufficiale della Cee Ma chi ci insegnerà il latino? Sconfitto al Palasport di Roma. Andreottì si prende una bella rivincita con la laurea «honoris causa» che gli conferisce la Sorbona di Parigi per rimeritarlo dei suoi buoni studi di latino. Pare che abbia promosso una splendida edizione critica delle opere del suo conterraneo Cicerone, e non ritengo che perciò si debba accusarlo una l'olta di più di campanilismo clientelare. La sua impresa è più degna: favorire la conoscenza del latino serve anche a proporre alla nostra classe dirigente un modello di eloquenza migliore di quello che ha corso — in lingua democristiana o sinistrese — in tutte le nostre assemblee politiche. In effetti il latino è di gran lunga più conciso e mira dritto al nodo di una questione: «Ceterum censeo Chartaginem esse delendam... diceva Catone, e tanto gli bastava per far chiaro che a suo giudizio bisognava distruggere Cartagine. Né Cicerone era da menu: «Quousque tandem. Catilina. abuteris patientia nostra?». Per ammonire Catilina che egli aveva superato ogni tollerabile limite, non più di sei parole. Lo stesso Carter potrebbe giovarsi di questi esempi in occasione dei suoi «alto là» all'Unione Sovietica. Del resto è un uso ancora corrente il domandare in tono di minaccia o di sfida: hai capito il latino? In Italia, per quanto mi risulta, l'ultimo discorso pronunciato in latino a Montecitorio fu il 14 dicembre 1962, allorché si discuteva alla Camera circa l'utilità e l'importanza di insegnare la lingua dei nostri avi a tutti gli alunni delle scuole medie. Il deputato democristiano di Napoli Stefano Riccio (oggi tornato alla notorietà per una triste sua disavventura collegata al crac di una compagnia di assicurazioni napoletana) era un appassionato latinista. Anche i discorsi nei comizi elettorali li cominciava dicendo: «Si vos valetis bene est. ego quidem valeo». cioè se state bene mi fa piacere, io per me sto benissimo. Essendosi proposto di parlare a Montecitorio sui programmi della scuola fece sapere a! presidente della Came~ ra. che era Giovanni Leone, di avere l'intenzione di pronunciarsi — in latino — «de linguae latinae utilitate et momento... Leone era un suo amico, da ragazzo aveva giocato con Riccio nei prati di Pomigliano d'Arco, poi erano diventati tutti e due professori nella stessa università. quella di Napoli, ma si disse perplesso circa l'opportunità di tale esibizione parlamentare: «Rifiutartela non vorrei, ma neppure mi sento di permettertela», gli spiegò in confidenza. Si trovò tuttavia una soluzione: a presiedere la seduta della Camera il 14 dicembre 1962 sarebbe stato il vicepresidente Paolo Rossi, impareggiabile esperto di patristica latina e greca. E così quando Riccio attaccò a parlare in un bel latino e da ogni banco si levarono mormorii di protesta. Paolo Rossi osservò culturalmente: «Dacché è stato sciolto il senato romano non mi risulta che alcun regolamento abbia vietato l'uso del latino». L'attualità di quella lingua poteva trovare conferma nel fatto che nel Concilio ecumenico Vaticano II, giunto in quei giorni alla conclusione della sua «Prima Sessio», la lingua ufficiale era il latino. Insomma. Riccio potè parlare nell'idioma da lui scelto, e mi ricordo che il malizioso Paolo KosVittorio (ìorresio (Continua a pagina 2 in nona colonna)

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