E allora esplosero i Borboni

E allora esplosero i Borboni IL '700 NAPOLETANO A CAPODIMONTE E AL MUSEO S. MARTINO E allora esplosero i Borboni Una grande mostra testimonia le diverse anime dell'arte sotto la nuova dinastia: la difesa della tradizione locale e l'aprirsi di Napoli agli scambi con Inghilterra, Francia, Germania - Stupende manifatture: arazzi, ceramiche - La teatralità barocca di pittura e scultura - Il passaggio dai temi sacri alle allegorie mitologiche - Cronache regali e vedute di Paestum NAPOLI — Sono appena terminate le mostre del 700 emiliano (i Papi, i FarneseBorbone), e iniziano, a Capodimonte e al Museo di San Martino, quelle del 700 napoletano (gli Asburgo, i Borbone delle Due Sicilie). Non più intitolazioni «stilistico-linguistìche*. Barocco, Rococò, Neoclassicismo, ma riferimento ai tempi storici, alle situazioni territoriali. L'adeguamento a nuove prospettive di metodo coincide con la riproposizione di specifiche culture e tradizioni ambientali, che meglio chiarisce i rapporti, i flussi, gli scambi fra aree culturali, oggettivamente più legati a opportunità di lavoro per gli artisti, a volontà di potere e di committenza, che non ad astrattive identità nazionali. Diversamente dagli emiliani, che vantavano e privilegiavano le «illuminate* aperture internazionali rispetto all'accademismo locale, dalle pagine del primo catalogo napoletano (in prevalenza dedicato alla pittura e alla grafica; ne seguirà un secondo) traspare evidente la difesa della grande tradizione seicentesca locale, e dei suoi sviluppi lungo il secolo successivo, rispetto alle .importazioni*, soprattutto volute dalla nuova dinastia borbonica, di Carlo e di Ferdinando. Ma qui, a Napoli, ad apertura di secolo, tradizione locale vuol dire Luca Giordano, settantenne, e Francesco Solimena, cinquantenne, pit- tori di amplissima esperienza e fama e operosità «internazionale*; il fenomeno persiste, anche con l'avvento dei Borbone, con i De Mura, i Traversi, i Giaquinto: gran vigore, non solo di «tenuta* locale, ma di esportazione, con Roma come centro di interscambio. D'altronde, la dinastia borbonica, di un regno e non più di un vicereame, significa la nascita delle stupende manifatture, ceramica, arazzerla, pietre dure, e vuol dire la Napoli immessa nel grand tour inglese, francese, tedesco (Lord Hamilton, Saint-Non, Goethe, con gli artisti a loro legati, da Volaire a Tischbein), con il doppio fascino del «pittoresco* di natura e delle antiques ercolanensi, l'uno e le altre fonti ricchissime di paesismo e di gusto arredativo. Sono dunque due anime, due volti, di cui i saggi in catalogo, specie quelli di Raffaello Causa, principale responsabile, e di Nicola Spinosa, rilevano giustamente il limitato rapporto e scambio. Con singolare effetto, anche per il non specialista, la colossale mostra di pittura (prevalentemente profana; in attesa che si apra una seconda rassegna nel Palazzo Reale di città), scultura, arredo, a Capodimonte, in parte conferma, in parte devia da questo assunto. Il salone d'esordio, ad esempio, così volutamente « borbonico*, propone forme e concetti lucidamente razionali e internazionali, con i ritratti anglesizzanti di Ange- Oca Kauffmahn, dalla Famiglia di Ferdinando IV o Domenico Cirillo, fra i protagonisti e «martiri* della Repubblica Partenopea, con il Ritratto di Ferdinando IV a nove anni di Mengs, con le grandi Vedute del Golfo di Joseph Vernet, venute dal Louvre, con una delle tante Eruzioni del Vesuvio dello specialista Volaire, mentre subito dopo, a contrasto, il grande, enfatico realismo autoctono napoletano fa pompa di sé nel Ritratto del Duca di Maddaloni come Cavaliere di San Gennaro del Solimena (davanti al quadro, con accentuazione teatrale, è steso il pomposo manto dell'Ordine, rosso e oro). Di qui dilaga la teatralità barocca della pittura e della scultura. E' il punto di contrasto fra ì due volti, fra la concretezza di lumi, di colori, di «macchia*, che gestisce, ridonda, enfatizza, drammatizza (o meccanicamente impianta spericolate macchine sceniche), sulle tele, ma anche nei marmi, negli argenti; e un gusto progressivamente più aereo e delicato, stilizzato e scorporato, idillico o classicizzante. Da napoletano a romaneggiante, da autoctono a internazionale. L'alternanza è già ad esordio di secolo, fra l'estremo Luca Giordano, il maturo Solimena, il polivalente pittorescultore Domenico Antonio Vaccaro, da un lato, e artisti meno noti, ma di notevole significato e futuro influsso, come l'importato romano Giacomo del Po, con la Circe della Pinacoteca di Matera, neomanieristica, e Paolo de Matteis, con il «modello* (il superstite frammento centrale del relativo dipinto è esposto a fianco) in cui rappresenta se stesso in veste da camera, circondato da figure allegorizzanti il trionfo della pace, mentre dipinge un quadro con le figure simboliche di Austria e Spagna che si rappacificano a Utrecht e Radstadt: un funambolico, ultrabarocco gioco fra cronaca privata, storia e allegoria, dipinto con morbidi, argentei modi classicheggianti. Per segnare giustamente il divario, alla svolta del secolo, fra la committenza ecclesiale, e quindi la tematica sacra, nettamente prevalente nel '600 napoletano, e l'esplodere della grande decorazione profana, allegorica e mitologica, è affascinante protagonista della mostra la pratica pittorica del «bozzetto* e del «modello*, che mantiene intatti i valori teatrali, scenici, e valorizza la manualità, l immediatezza pittorica. Straordinario teatro mimico, concreto e illusionistico, promana poi dai ritratti, dipinti dal Solimena ff'Autoritratto del Museo dì S. Martino rivela tutto, al riguardo), scolpiti dai Vaccaro, dal Bottigliero, dal Pagano. Teatro sacro di opulenza quasi insostenibile, in un certo senso funerea, sconvolge e abbaglia nella sala degli argenti colossali, in gran parte del Tesoro di San Gennaro, dove trionfa la famiglia dei Del Giudice. Con l'avanzare del secolo, il doppio influsso di Giordano e Solimena si stempera nell'idillio arcadico e rococò di De Mura, di Domenico Mondo, fino all'aereo, «moderato* classicismo del Diano, del Bardellino, del Fischetti, di determinati aspetti del Bonito, eclettico come pochi, volgare nel «genere* quanto nobilmente illuminista nei maturi ritratti di gruppo, regali e borghesi. Vi è però, a metà mostra, il contraltare, il ritorno alle fonti realistiche, alla concretezza della cronaca: tanto lucida e virulenta da causare una sorta di esilio culturale a Roma nel caso del Traversi — l'unica figura veramente approfondita fino a pochi anni fa, grazie al Longhi —,' più corriva e «pittoresca*, folclorica, in «minori* rivelati dalla mostra, Filippo Falciatore (ch'è anche sontuoso decoratore rococò di portantine), Francesco Celebrano, Pietro Fabris. Siamo alle cronache regali, in un regno definitivamente stabilizzato e autonomo, in cui Ferdinando eredita dal padre Carlo, divenuto re di Spagna, le grandi fabbriche di Capodimonte, di Caserta, di Carditello, e vi alterna le. cacce a giochi «georgici*, illustrati con lucidità ottica appunto da Celebrano, Fabris, da Antonio Joli, e soprattutto dal tedesco Hackert. Con la stessa lucidità, nascono le prime vedute di Paestum, di Ercolano. L'autobiografia di Hackert avrà l'onore di essere riveduta e pubblicata da Goethe, mentre il primo contatto dello stesso Hacker con l'ambiente napoletano avviene attraverso Lord Hamilton. L'ultima parte àellamostra è antipodica rispetto ai clangori pittorici della prima metà secolo, con la sua immagine, ben più «arredata* che «dipinta», del più elegante, lucido classicismo internazionale: con gli arredi «ercolanensi* dedotti dagli oggetti e dagli affreschi riscoperti e staccati — ridotti anzi a quadretti da «gabinetto d'amatore* —con gli orologi «egizii*, con l'enorme tavolo recante al centro un litostrato romano, con Tischbein, l'intimo di Goethe, direttore dell'Accademia, con i ritratti dipinti dalla Vigée Lebrun, intima di Maria Antonietta, dopo la fuga dalla Parigi della Rivolu- Marco Rosei Angelica KaufTmann: «La famiglia di Ferdinando IV di Borbone» (1783, Napoli, Capodimonte)