Vita, trionfo e morte d'un tribuno del popolo di Lorenzo Mondo

Vita, trionfo e morte d'un tribuno del popolo NELLA «CRONICA» DELL'ANONIMO ROMANO Vita, trionfo e morte d'un tribuno del popolo Pochi decenni dopo la morte di Dante, un oscuro cronista affida agli umori imprevedibili della posterità un libro di prima grandezza che, subito dimenticato, poi parzialmente recuperato e travisato (sollecitando variamente la passione antiquaria degli umanisti, di un Muratori, di un D'Annunzio) ha sempre stentato a trovare posto nella nostra tradizione letteraria. E' la Cronica dell'Anonimo romano, che ci viene restituita per la prima volta in edizione critica da Giuseppe Porta (ed. Adelphi, lire 50 mila): con un lungo lavoro diretto tra l'altro a reintegrare nel disegno originario la parte dell'opera che sola ebbe fortuna tra amatori e specialisti sotto il titolo abusivo Vita di Cola di Rienzo. Ora ci troviamo nelle condizioni migliori per apprezzare questo libro straordinario, se appena riusciamo a evitare la soggezione di un apparato critico che moltiplica per tre le 250 pagine della Cronica: auspicando una edizione più economica e corsiva, fornita di note e glossario non puramente' filologici che aiutino alla lettura. Qui infatti, alle difficoltà inevitabili per testi di epoca così alta, si aggiunge la coloritura romanesca della lingua: segno evidente di una non pacifica resa al predominio del toscano, e presumibile causa di tardivo apprezzamento. Ma un'altra causa, come sottolinea il curatore, fu probabilmente la sconfitta di Cola di Rienzo, il tramonto della sua utopìa, alla quale l'autore della Cronica mostra di avere, almeno per qualche tempo, appassionatamente creduto. Nulla sappiamo dell'Anonimo, salvo quello che egli stesso lascia trapelare. Appartenne alla classe nobiliare romana, studiò medicina a Bologna e scrisse in latino una prima redazione della Cronica. La sua presenza nel testo è assai risentita, egli non si cura di tradire le proprie emozioni e quando può afferma risolutamente la sua qualità di testimone veritiero delle cose narrate: «E io le viddi e sentille». Perfino di una battaglia così lontana come quella combattuta tra cristiani e mori sul Rio Salado. cerca testimonianze dirette, interrogando pellegrini spagnoli che abbassano il cappuccio e mostrano le cicatrici di quelle ferite. Le lacune del testo rendono non del tutto chiare le linee della progettazione. Sembra che tutto si svolga naturalmente, e quasi irrompa sulla scena, da una localizzazione topografica e memoriale che intende affermare in primo luogo una esigenza di verità: dal giorno cioè in cui l'autore bambino, dalla chiesa di «Santa Maria' dello Piubico». vide passare i cavalieri armati che scacciarono dal Campidoglio un senatore dei Savelli. «Bene me recordo corno per suonno», scrive, e già in questo sognare rivela le qualità epiche della sua immaginazione e della sua scrittura: «La traccia era longa. La campana sonava. Lo puopolo se armava». Partendo di là. la Cronica per larghi cerchi si allontana alquanto da Roma per trattare fatti di Lombardia e di Francia, di Spagna e di Turchia, a documentare la condizione di un mondo diviso e crudele, quasi impazzito perché non ha più centro, perché papa e imperatore hanno portato fuori d'Italia i loro scettri contestati. In questo strepito insensato di guerre, tumulti, congiure, accompagnati da simpatetiche calamità naturali («pane che Ile fontane dello abisso fussino aperte per vomacare acqua») alcuni tratti si impongono, che prendono colore e significato dal «sogno» di quel ragazzo. Essi riguardano la caduta di un potente, di un personaggio innalzato da autorità e ricchezza: il tiranno Mastino della Scala, il duca di Atene o la stessa Ricciaferra. la regina saracena trafitta da un lanzo mentre siede, «in figura de tristizia», nel padiglione reale abbandonato dai suoi ai vincitori. Possono apparire premonizioni, o forse nubi fosche e deprecabili che l'astro sorgente di Cola sta per dissipare. Perché a un certo punto la Cronica torna a circoscriversi sull'Italia, ad addensarsi su Roma che il giovane tribuno sembra voler istituire un'altra volta a capitale dell'universo. L'autore ne accompagna l'ascesa con ammirazione trepidante. Lo incanta, in Cola, la pratica dei classici latini, l'elo¬ quenza ispirata («Deh, come e quanto era veloce lettore'.») e volta a effetti di trascinante drammatizzazione ( «recitao piagnenno la miseria, la servi tute e Ilo pericolo nello quale taceva la citate de Roma»). Prodigio inaudito, un sogno di natura in gran parte letteraria, maturato sulle pagine di Tito Livio e sulle epigrafi dissepolte, entusiasma oltre ai sapienti la gente minuta, arma il suo braccio contro i nobili arroganti e senza legge, promette di restaurare la repubblica romana e di stupire il mondo: «Tutta la Cristianitate fu commossa corno se levassi da dormire». E se l'imperatore viene sottoposto all'autorità del popolo di Roma, nei confronti del papa, che vigila da Avignone, non alleato e non ancora nemico. Cola vagheggia una renovatio improntata allo spiritualismo degli ordini mendicanti e al profetismo dei gioachimiti. L'Anonimo consente con lui. ne giustifica in parte le intemperanze, così gravoso è il compito che si è assunto, così esaltante lo spettacolo della stessa natura che appare come pacificata e redènta. Ma alla fine non può trattenersi dal rilevare i «diversi vizi» che lo insidiano e lo condurranno a perdizione. quasi sembra volerlo trattenere sulla pericolosa china, contrastare il proprio nascente disamore. Cola impazzisce per il lusso, i sontuosi banchetti, le cavalcate araldiche per le vie di Roma. Cola ha il gusto della crudeltà e non riesce a farla dimenticare con gli improvvisi slanci di magnanimità. La sua manìa di grandezza lo induce a immergersi nella vasca lustrale di Costantino, a indossare la dalmatica dei Cesari. Riesce ancora a sconfiggere i baroni ribelli che tentano di forzare le mura della città; cade, circonfuso di virgiliana pietas, il più giovane dei Colonna, muore anche suo padre Stefano che invano ha cercato di salvarlo (salutato da un desolato, agghiacciante epitaffio: «Stette in quella vigna nudo, muorto, calvo, grasso»), * * Cola ha vinto i suoi nemici ma non sa vincere se stesso. «Vestiva panni come fusse un asiano tiranno». Prima che dalle scomuniche del papa, sarà condannato dagli ideali repubblicani che ha tradito, facendosi da tribuno re. E' il suo Tito Livio che lo respinge. Del resto la virtus che gli viene a mancare — osserva il suo aristocratico biografo — non ha mai saputo infonderla nei suoi seguaci, un popolo che è rimasto «senza ordine, senza leie». Il ritorno al potere dopo l'esilio e la prigione, al seguito delle armi pontificie: più che una nuova chance è una disastrosa verifica. Il popolo, che ha avuto modo di rimpiangerlo nella lontananza, fa presto a disaffezionarsi di lui. che divide i suoi giorni tra il sospetto e la crapula. Basta la prima gabella. Ammazzato ai piedi del Campidoglio, il suo cadavere viene trascinato e rotto fino in piazza San Marcello, dove lo appendono per i piedi a un balcone: «Grasso era orribìlemente, bianco corno latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello». Sembra segnato, quel corpo, dalla matta bestialità che ha guastato gli alti propositi di Cola. Dopo l'entusiasmo, lo scoraggiamento, il sarcasmo. l'Anonimo si congeda indugiando su queste immagini atroci, quasi per punirsi di avere creduto ad un sogno così grande di rinnovamento morale e civile. E' la storia della corruzione che è connaturata al potere, della caduta inevitabile anche quando l'ascesa fu generosa e svettante come nella vita esemplare di Cola di Rienzo. Al termine di quella che si configura come una torturante marcia funebre, l'autore inabissa il suo nome con quello della sua perduta uto- Pia Lorenzo Mondo

Persone citate: Cesari, D'annunzio, Tito Livio