La volanda di Natalia Ginzburg

La volanda UN LUMINOSO RACCONTO D'INFANZIA La volanda Breve racconto d'infanzia, tortuoso e semplice, La volanda di Romana Pucci (ed. Einaudi) è una piccola opera dotata di una singolare e strana grazia. Di racconti d'infanzia ne sono piene le strade. Sembra a tutti facile evocare le proprie impressioni infantili. Questo racconto è però singolare. Ha difetti e manchevolezze, è diseguale, disarticolato. Ma si sente, fin dalle prime pagine, che la persona che scrive ha la facoltà di proiettare una 'luce sul suo mondo. Ciò provoca una sensazione precisa, la sensazione di essere in un punto preciso della terra, là e non altrove. Strano a dirsi, la facoltà di raccontare è la facoltà di fare esistere, prima ancora che dei visi o delle situazioni umane, un punto preciso della terra, e la sua luce. Romana Pucci è del tutto ignota, e questo è il primo libro che pubblica. Vive a Milano. E' nata in un paese della Toscana, in provincia di Pistoia, e ha passato i primi anni dell'infanzia a Verona. Nel suo racconto, si intersecano la parlata toscana e la parlata veneta. La volanda è quella polvere bianca che copre le pareti dei mulini, quel velo di farina che resta nell'aria dopo che è stato macinato il grano. Nella memoria, gli anni dell'infanzia hanno lasciato una sfarmatura leggera, un velo che svanisce in un soffio. «Abitavamo a Livorno, in una piccola casa col pozzo nell'orto e due alberi, un gelso e un albicocco. D'inverno, impigliato nelle nocche degli alberi, il cielo sventolava un momento, e poi cadeva, sgualcito, oltre la siepe; d'estate i frutti sciroppavano al sole, un colaticcio vio-' [arancio che, di tanto in tanto, gorgogliava di bolle». «Avevo tre anni quando l'orto e la casa scomparvero. A Verona, nelle stanze affacciate sul vìcolo, il sole sgusciava sui balconi tra i gerani del babbo, e tramontava presto». «Avevo perduto gli alberi e le stagioni della terra». Il padre, ferroviere; la madre figlia d'un maestro elementare in pensione; le famiglie dell'uno e dell'altra; la nascita d'un fratello; le voci toscane che risuonano nel ricordo lontano della casa «col gelso e l'albicocco», o nella campagna dove vivono i nonni materni, visitati d'estate; le voci venete che risuonano, fra cortili e vicoli, nei mesi invernali; gli incubi notturni; la complicità col nonno, uomo assorto in se stesso, sereno e solitario; il crescere e il sentire insinuarsi nell'infanzia l'adolescenza, simile a uno sciame d'insetti venuti a devastare la fisionomia antica, a renderla irriconoscibile, a rivelare che niente è stabile, meno che mai la nostra immagine stessa; il mondo famigliare e il mondo di fuori, esplorato per incontrarvi pericoli, gettare scompiglio fra le pareti di casa, spargere fra quelle pareti paura, panico, lagrime, punire le persone di casa, e soprattutto la figura materna, della loro incoerenza, stravaganza, monotonia e fragilità; indagare il sesso, la notte e la morte. Questo il piccolo mazzo delle memorie che sono qui raccolte; e tutto questo, si dirà, non è nuovo. Ma nuova e strana è la luce che illumina l'intiero racconto, una luce fosca, di colore giallo e grigio, quasi si stendesse, sopra a quel mondo inoffensivo, senza drammi reali e forse felice, un cielo di nuvole sulfuree, l'attesa d'una prossima tempesta votata a distruggerlo. Tortuoso è lo stile del racconto, come se riflettesse, nelle sue frasi aggrovigliate e spinose, un rapporto con l'esistenza spinoso e contorto, e un intrico di gratitudine e di rancore nei confronti dei doni dell'esistenza, doni leggeri, stravaganti, soggetti a mutamenti e trasformazioni, così sfuggenti che il pensiero li insegue e li vede sparire prima di averli capiti; semplice e lineare e concreto, e nudo e ruvido, è il paesaggio dell'esistenza stessa. La figura materna, riottosa e scontrosa; la figura paterna, sollecita e ansiosa; su di esse si posa lo sguardo infantile, severo, ironico, amoroso e astioso, pronto a cogliere i malumori dell'una e le sottomissioni dell'altro. La madre: «... somigliava alle prime donne del mondo, girovaghe e peregrinanti dietro al sole. Fosse stato in suo potere si sarebbe cibata di bacche e di radici; oppure degli avanzi di qualche bestia abbattuta dagli anih.ulì più forti». «Evadeva per lunghe ore ogni giorno, con qualunque tempo, dalle mura di casa, sulla traccia d'un cammino perduto: boscaglie e radure fuori porta, anse del fiume, castelli in rovina, bastioni invasi dai gatti randagi e guardati dal falco». 11 padre: «... si inanellava le dita dei miei ricci fissando il vino nel fondo del bicchiere, un dito schietto per scaldare i bocconi: "Anche oggi è passato, se Dio vuole... e si è chiusa la porta, e si è stesa la tovaglia..."». Mite e umile davanti alla madre, intimorito e disorientato dai suoi silenzi, egli suggerisce ciò che gli sembra la possa ammansire: «Una lista di pelliccia per il bavero del cappotto... Un cappello nuovo con la veletta a ponfi di ciniglia... Quel busto colore glicine in mostra dalle sorelle Rebbi...». Le parole che rivolge invece la bambina alla madre sono dure e rabbiose: «Ti avverto che te ne puoi andare anche subito, col tuo bambino maschio... Ho saputo che il babbo ti scambierà con un'altra mamma, buona e bellissima...». Il nonno: «Canuto, asciutto, vestito immutabilmente di nero, lo sparato bianchissimo dal lucore di salda, sottile e senza ciondoli la catena dell'orologio sul panciotto, il nonno non aveva una figura importante: fierezza e gracilità si confondevano l'una nell'altra. La piccola testa di oratore, eretta sul collo magro, lo faceva apparire più alto e sicuro di quanto non fosse». Non c'è, nel racconto, alcun segno dell'epoca in cui è situata questa infanzia, o meglio i segni sono impercettibili: la veletta, la catena dell'orologio. E' un'epoca lontana; un'epoca in cui la realtà era, o si credeva fosse, stabile, solida, senza sussulti, i nuclei famigliari indissolubili, le mura delle case indistruttibili e ospitali. Agli occhi della bambina, nel racconto, la realtà appare invece va¬ cillante e insicura; le case non emanano calore alcuno e sembra sempre che uno sgombero o una lacerazione siano imminenti; la quiete della campagna appare come un bene labile che tra poco ci sarà sottratto; gli. uomini sono fragili e le donne corrucciate e amare. Le parole del padre al termine della giornata, «e si è chiusa la porta, e si è stesa la tovaglia», suonano incerte e tristi, come vi fluttuasse un'ingenua simulazione di pace domestica; suonano in stanze strette, disordinate e ingombre, dove pesa un presagio di devastazione. Per questo, la bambina cerca asilo fuori dalle pareti di casa, imitando la madre nei suoi cupi vagabondaggi; cerca alleanza con sconosciuti passanti, segue funerali di ignoti singhiozzando di dolore; si finge zoppa, così da suscitare nella madre spavento, e negli estranei pietà; lutti, conflitti e malattie, assenti momentaneamente dalla sua vita, sono costantemente evocati e corteggiati dalla sua immaginazione. Senza che una sola sillaba sia spesa per delineare il futuro, il futuro è tuttavia presente nel disegno di questo paesaggio infantile, il quale non è per nulla rimpianto come un verde paradiso perduto ma appare come un angolo di stanza angusto, rotto e assediato o come un angolo della terra prossimo a precipitare nel buio. E molte sono qui le zone deboli, o confuse e pallide, o anche letterarie; e tuttavia ricordiamo fortemente l'ironia amorosa e acerba di questa fisionomia infantile e alcune fra le figure che la circondano, e la luce dei luoghi: e non è poco. Natalia Ginzburg

Persone citate: Canuto, Einaudi, Pucci

Luoghi citati: Livorno, Milano, Pistoia, Toscana, Verona