Il coraggio dei Rosselli di A. Galante Garrone

Il coraggio dei Rosselli NELL'« EPISTOLARIO FAMILIARE» 1914-1937 Il coraggio dei Rosselli E' uno stupendo Epistolario familiare, quello fra Carlo e Nello Rosselli, e la loro madre Amelia, dal 1914 al 1937 (pubblicato in questi giorni dalle edizioni Sugarco, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e con introduzione di Leo Valiani). Vi si respira un' «aria di casa», vi «si palpita per le grandi cose», ma «si vive anche delle piccole cose», come nel 1918 scriveva la madre a uno dei figli. In questo intreccio fra umile vita quotidiana ed eventi che appartengono alla migliore storia del nostro Paese, e già sembrano sfumare in una eroica leggenda, risiede il singolare fascino del libro. In una lettera del gennaio 1925 alla madre, chiamata coi nomignoli più affettuosamente giocosi («ciribicoccola», «pallina», «birillina»), Carlo usciva in questa battuta scherzosa: «Penso con orrore alla pubblicazione del nostro epistolario. Il mio posto nella storia è in pericolo». E' chiaro che all'eventualità di una simile pubblicazione egli non pensava; e proprio in questo privato abbandono all'onda dei più intimi sentimenti familiari è la bellezza di questo carteggio. Ma è un fatto che, dopo i pregevoli studi già apparsi, esso getta una nuova, vivida luce sui tre personaggi. La madre Amelia, prima di tutto. Non credo che la si possa spacciare, tout court, come una nazionalista, anche se alcuni dei motivi del nazionalismo nostrano non le fossero estranei, e lo stesso Carlo talvolta la accusasse di eccessiva indulgenza per Gioacchino Volpe. Forse è più esatto parlare di passione nazionale, di patriottismo: quello che allora animò Salvemini, Bissolati, i fratelli Garrone, Ernesto Rossi, Battisti, e tanti altri che allora si illusero in una pace di giustizia fra le nazioni risorte a libertà (e che fosse solo una generosa illusione lo si vide più tardi). Amelia è angosciata dalla guerra mondiale, da questa «visione di sangue e di orrore». Il 9 agosto 1944 si rallegra della resistenza che incontrano i tedeschi. Questo già ci dimostra quanto fosse lontana dai nostri nazionalisti. Per lei, si tratta di una «guerra di princìpi», che mazzinianamente «sale dalla patria alla umanità tutta». All'indomani della vittoria, diffida dei «dalmatomani», vuole che Salvemini le chiarisca le idee, ammira Wilson, e nel gennaio del '19 s'indigna perché alla Scala di Milano Mussolini e gli arditi hanno impedito a Bissolati di parlare («è una vergogna incancellabile; pensare che si è combattuto e sono morti milioni d'uomini per la libertà, e che si calpesta questa stessa libertà nella sua prima espressione, il pensiero e la parola!»). Fra lei e i nazionalisti nostrani, si era già aperto un abisso. E poi, l'educazione austera, perfino severa, dei figli. Soffoca in sé lo strazio per la morte del primogenito Aldo in guerra, e consiglia, ammonisce, sprona Carlo e Nello ancora adolescenti. Richiama Nello a un modo più serio e virile di affrontare la vita; e a Carlo, che dagli studi tecnici vorrebbe passare all'azione politica e ai problemi sociali, addita la preliminare necessità di darsi una «base tecnica», di crearsi gli strumenti pratici, magari nell'attività industriale, per affrontare le questioni socio-economiche che già lo attirano. E nell'uno e nell'altro infonde un soffio di potente idealismo. Scrive all'inizio del 1919: «Lo scetticismo distrugge, non crea, e abbiamo tanto bisogno di creare, e di credere». Anche nei momend più duri, quando i due figli sono in carcere, al confino, in esilio, essa ha scatti di bellissima fierezza, di coraggio indomito. Dopo il processo di Savona, che ha rivelato la forza morale di Carlo e dei suoi compagni, esclama: «E ' stata una cosa grande». In altri momend, di fronte all'ingiusta persecuzione del suo Nello, è sopraffatta dal dolore, dall'indignazione amara; e le pare di odiare Firenze «dolce e perfida», la bella casa la gente intorno a sé. Ma subito si riprende, ed è, per i figli, non solo l'ispiratrice, ma un punto di forza. Quando Carlo è da pochi mesi in Francia, al principio del '30, lo ammonisce a «non tirar troppo la corda»; ma insieme lo incita: «Abbi la fona e il coraggio di sentirti solo». Pur tra gli spasimi del cuore è una madre di acciaio. Dal carteggio Carlo emerge in tutta la sua vigoria morale, con tratti che ancora non conoscevamo a fondo. Assistiamo alla sua prima formazione. Gli ultimi mesi di guerra, vissuti da lui giovanissimo, ne hanno fat¬ to, da ragazzo che era, un uomo. Dopo, sono gli studi economici ad attrarlo: e le sue lettere ci dimostrano l'influenza di studiosi come Einaudi, Jannaccone, Cabiati. Subentra l'avversione al fascismo, e una crescente smania di azione, pur nello slancio dei primi scritti e del primo insegnamento, a Milano e a Genova. Un altro potente fattore della sua maturazione sono i soggiorni in Inghilterra, dal 1923 al '24, e la scoperta della serietà con cui gli anglosassoni prendono la vita, del loro metodo induttivo — «fatti, fatti, fatti» —, del «grande e stupendo ideale socialista» dei minatori del Galles. Dopo il delitto Matteotti, Carlo sente di doversi buttare nella lotta, per un «imperativo morale». Sono dileguate per sempre le speranze di un tramonto pacifico e costituzionale del fascismo. Prevede V«afflosciamento» delle opposizioni, e di dovere per lunghi anni «marcire nel grigio». Eppure, confida alla madre, «bisogna tener duro a costo di dover continuare a logorarsi per tutta la vita». Fonda con Nenni il Quarto Stato, si iscrive al partito socialista unificato (mentre Nello aderisce alla concentrazione democratica di Amendola). Non ha rimpianti, perché il suo destino se lo è scelto: «Meglio gettarsi il bagaglio dietro le spalle». Dopo che i fascisti hanno devastato la casa di Firenze, dice alla madre che bisogna mostrarsi duri e quasi indifferenti. «Questo ed altro dovremo vedere». Arrestato nel 1927 con Parri e Pertini per l'espatrio di Turati, Carlo scrive alla madre dal carcere di Como e di Savona lettere di un'altezza meravigliosa. Rifiuta ogni transazione: «Ormai il dado è tratto... Sento, per istinto, che l'esempio potrà servire solo se sarà puro, perfetto, incontaminato». Dunque, intransigenza assoluta. Poco dopo, confinato a Lipari, sentirà la gioia di muoversi, di «ubriacarsi di luce, di sole, di mare». E' ormai tutto proteso all'azione. «Sempre più intensa e violenta diventa la mia volontà di azione e di realizzazione, ora, su questa terra, in questo che non sarà se non un attimo del tempo eterno, in questo che non è se non un punto dello spazio infinito, ma che per' me è tutto il mio tempo il mio spazio il mio mondo la mia ragione di vivere». In fondo i tre figli, Aldo, Carlo, Nello, sono quali la madre li ha voluti. Non saranno numeri vani. «Bruceranno forse tutt'e tre, ma per aver cercato di avvicinarsi troppo alla luce». Bellissima è l'ultima lettera scritta alla madre, il 15 luglio 1929, nell'imminenza dell'audace evasione da Lipari: «La sera è dolce, ed'è bello trascorrere lunghe ore cogitando e sognando sulla terrazza teneramente fasciata dalla luce lunare». Tutto quello che verrà, dalla fondazione di Giustizia e Libertà alle ardite imprese, a Socialismo liberale e ai Quaderni, alla guerra di Spagna, fino alla tragica fine con Nello a Bagnoles-de-1'Orne nel 1937, è nato nella solitudine di Lipari, fra cielo e mare. Non credo di far torto a Carlo, se dico che ancora più sorprendenti sono forse le lettere di Nello: per la bellezza della scrittura (si veda, commovente fra tutte, quella del 12 settem- bre 1928 da Udine, dopo avere assistito alla traslazione della salma di Aldo in un cimiterino del Friuli); per il suo precoce disgusto d'ogni fiacchezza (Fatta «uomo di burro»: 16 agosto 1922) e d'ogni asservimento al regime, o voltafaccia (Gentile. Ansaldo); per quel suo prepararsi a una resistenza lunga e silenziosa («non c'è da sperare che in una seminagione a lunghissima scadenza»); per l'inflessibile dignità con cui, rimasto in Italia, resiste a ogni lusinga o minaccia; per I'ango; scia di sentirsi esule in patria, quando, tornato dal confino, gli pare che ogni bandiera, ogni balilla gli dica: «Vattene, tu non sei dei nostri»; per quella sua forza tranquilla che si annida sotto un manto di mite e poetica gentilezza; per l'impegno morale da cui nascono i suoi scritti storici. Era stato Nello, tanti anni prima, a suggerire il titolo del foglio clandestino Non mollare. Ed è ancora lui che il 4 dicembre 1931 scrive a Carlo da Vienna: «C'è molto fuoco sotto la cenere in Italia... Finirete, finiremo col vincere se non mollerete mai, neppure un momento, neppure un pollice». E infine, in questo straordinario carteggio sono tante le figure che spiccano, a cominciare dalle mogli di Carlo e Nello. Marion e Maria: i torinesi, da Einaudi a Gobetti e a Fubini: i compagni d'azione, da Amendola e Turati ad Ernesto Rossi e Bauer; i parenti e cugini, fra i quali Alberto Pincherle, che era poi Alberto Moravia. Ma due nomi ci pare abbiano un risalto particolare. Uno è Gaetano Salvemini, l'animatore e il maestro e quasi il padre dei due Rosselli, come di tanti che sarebbero venuti dopo di loro alla vita politica. L'altro e Ferruccio Parti, oggi un po' appartato da tutti noi. in una silenziosa e discreta solitudine. Vorrei mandargli, da queste colonne, un saluto e un grazie a nome dei tanti che gli sono stati vicini. Salvemini e Parri: due nomi che segretamente illuminano gran parte di questo epistolario, e anche la vita di molti di noi. A. Galante Garrone