Da agitatore a uomo di Stato

Da agitatore a uomo di Stato PIETRO NENNI, UN PROTAGONISTA DEL SOCIALISMO: «LA VERA RIVOLUZIONE E? LA GIUSTIZIA» Da agitatore a uomo di Stato Rischiò di passare dall'orfanotrofio al seminario - Perse i primi due impieghi per uno sciopero e una manifestazione anticlericale: «Da allora il mio destino fu tracciato» - Fece il giornalista, partecipo alla prima guerra mondiale - Fu uno dei grandi leader della Resistenza - Caduto il fascismo, il suo partito ebbe più voti del pei - L'incontro con John Kennedy Pietro Nenni era un uomo che ci era stato consegnato da un'altra età. La sua storia incomincia da lontano, perché egli era contemporaneo di Mussolini, per di più romagnolo come lui, e la lunga vicenda della sua vita avventurosa rappresenta una vera alternativa esemplare a quella del duce di Predappio. Nato a Faenza il 9 febbraio 1891 in una famiglia contadina, a cinque anni rimase orfano del padre che era stato fattore dei conti Ginnasi, e per interessamento della buona contessa fu rinchiuso nell'orfanotrofio cittadino. «Cosi egli ha scritto, mi fu messa una corda al collo in un'età in cui niente è meno tonico di una disciplina servile. I dieci anni di orfanotrofio sono stati l'inguaribile piaga della mia vita. A questa claus trazione devo un certo complesso di rivoltoso che non mi ha più abbandonato». Questo di sé scriveva Nenni, nel 1942, in un libro che avrebbe dovuto avere il titolo Cose vissute e che purtroppo non fu mai compiuto. Egli era allora confinato nel villaggio di Le Croizet, in Alvernia, quando i tedeschi lo arrestarono, 1*8 febbraio 1943, per deportarlo in Germania. Ma anche le prime cento pagine che abbiamo (comprendenti i primi trent'anni della sua vita) sono preziose perché danno il quadro della sua faticosa formazione e delle prime tormentate lotte politiche. Nell'orfanotrofio di Faenza i suoi studi furono scarsi, ma varie e stravaganti le disordinate letture: Victor Hugo, I misteri di Parigi di Eugène Sue, la storia della rivoluzione francese di Michelet, la vita di Garibaldi della Jessie White Mario, un po' di Pascoli e di Leopardi, molto Carducci, molto Mazzini. La contessa Ginnasi aveva progettato di farlo passare dall'orfanotrofio al seminario per avviarlo alla carriera ecclesiastica, «ma la mia opposizione avendo preso le forme blasfematone le più brutali, il progetto fu abbandonato, e conseguita appena la licenza tecnica fui messo come scrivano in una fabbrica di ceramica». Guadagnava, a diciassette anni, dieci lire la settimana, e incominciava la carriera giornalistica pubblicando sul settimanale repubblicano Il Lamone brevi articoli romantico-sentimentali nei quali «molto era questione di bombe alla Orsini o del pugnale di Armadio o di Passentante». Perdette il primo impiego per aver aderito a uno sciopero di ceramisti, e poi anche il secondo — di scrivano al catasto — per aver preso parte a una manifestazione anticlericale che gli costò i due primi giorni di prigione della sua vita: «Da allora il mio destino fu tracciato: sarei stato un propagandista, anzi un agitatore». Cominciò in Lunigiana fra i cavatori di marmo, continuò in Romagna partecipando alle lotte fra repubblicani e socialisti in concorrenza, e là conobbe Mussolini «che era allora una specie di selvaggio dall'eloquenza nervosa e dallo stile originale». Come repubblicano, Nenni spesso affrontò il socialista Mussolini in contraddittorio, e talvolta con metodi più spicci: «Ricordo, per una questione sul prezzo del latte, una solenne cazzottatura all'ombra del campanile di San Mercuriale». Tuttavia, in occasione dello sciopero generale del 1911 contro la guerra di Libia, Nen ni e Mussolini finirono insieme in prigione, Nenni per nove mesi e Mussolini per sette, e «fra le mura delle prigioni di Forlì e di Bologna la nostra amicizia si sviluppò con comuni letture (quella di Sorel in particolare), con comuni meditazioni, con comuni speranze sulle prospettive del movimento rivoluzionario italiano». Venne la cosiddetta settimana rossa di Ancona, nel giugno del 1914, e ancora una volta Nenni fu arrestato e restò in carcere fino al principio del 1915, quando fu liberato per amnistia. Frattanto era scoppiata la prima guerra mondiale: «Nel silenzio e nel raccoglimento del carcere io avevo, fin dal primo colpo di cannone, optato per l'intervento. Fra tutte le possibili soluzioni, la neutralista era quella che mi ispirava più orrore». Soldato e poi sergente di artiglieria, sedici mesi ininterrotti di fronte, ebbe infine i>na licenza di convalescenza di un anno essendo rimasto ferito, Riprese l'attività giornalistica dirigendo a Bologna un quotidiano radicaleggiarne, Il Giornale del mattino, ma dopo la rotta di Caporetto volle tornare a combattere restando in linea fino a Vittorio Veneto, sergente nella 94* batteria bombardieri. Seguì la smobilitazione: «Un pacco vestiario, una polizza di assicurazione a venti anni data, un ordine del giorno con la firma del re, furono il viatico col quale soldati, caporali, sottufficiali di complemento furono rinviati alle loro case, con l'espresso consiglio di parlare il meno possibile della guerra, del- ' le promesse a cui aveva dato luogo, dei diritti della generazione del fuoco che erano serviti di tema per tante chiacchiere». * * 11 sergente smobilitato Pietro Nenni aveva invece tratto dalla guerra un nuovo impulso rivoluzionario che inizialmente espresse in modo disordinato. Prese parte alle agitazioni per Fiume italiana, ma presto si oppose alle speculazioni dei nazionalisti e di D'Annunzio. Fondò un fascio di combattimento e tenne a battesimo una sezione di arditi, per rinnegare' però quasi subito la propria iniziativa, in cospetto dell'azione antiproletaria degli squadristi della valle padana: «Ma avevo ancora molti sforzi da compiere su me stesso per liberarmi dal bagaglio di idee, di sentimenti e di risentimenti degli anni di guerra». Redattore del Secolo, fu a Parigi, a Bruxelles, a Vienna, a Costantinopoli e nel Caucaso come inviato speciale: «Questo sguardo sul mondo fu per me una rivelazione e mi istruì sulla immonda gara degli imperialismi insoddisfatti. Lo spettacolo che offriva all'interno la classe dirigente italiana non era di qualità migliore». Fini per iscriversi al partito socialista («del quale avrei potuto dire, parafrasando Goethe: conosco tutte le tue deficienze ma so anche quel che c'è di buono in te») che egli vedeva come strumento per una rivoluzione proletaria e democratica. Non era uno stratega di rivoluzioni, ma un uomo appassionato, commisto di attivismo e di scetticismo, che si batteva per la giustizia sociale. Formatosi personalmente più su Mazzini e Carducci che su Marx, gli ripugnava la stretta disciplina del partito comunista, e difatti si oppose con tenacia all'assorbimento del parato socialista da parte del pei, e per questo sostenne minacce e boicottaggi, anche gravissimi, durante gli anni dell'esilio in Francia. Il suo grande nemico-amico Giuseppe Saragat ha ricordato un episodio illuminante al riguardo: «Una volta, quando risiedeva a Parigi,-Nenni si recò nella Francia meridionale per tenervi un comizio, e i comunisti gli fecero dare il benvenuto da un centinaio di algerini che lo indicavano e lo minacciavano con lunghi coltelli, lo conosco l'angoscia di Nenni perché l'ho provata anche io, prosegue Saragat, quando i gridi e le calunnie dei miei avversari diventano assordanti e mi assale il timore che gli operai storditi da quel •chiasso finiscano per crederci». Non per questo, comunque, Nerini rifiutava la pratica dell'unità d'azione con i comunisti, se considerava che i socialisti non fossero in grado di prendere la direzione della classe lavoratrice. Era il suo sogno fino dagli anni dell'esilio, quando reggeva la concentrazione antifascista in qualità di segretario generale, e coordinava le manifestazioni contro le guerre di Etiopia e di Spagna. Abitava a Vincennes, in due stanzette umide, filtrava acqua dal tetto, e qualche volta, se pioveva più forte, si doveva aprire l'ombrello per coprire la pentola sul fornello. U giorno che dovette fuggirne, il 12 giugno del 1940, per sottrarsi all'avanzata tedesca, registrò nel diario il suo congedo da Parigi con parole semplici e pacate: «Solo in questa casa che ha visto svolgersi dieci anni della mia vita familiare, fra molte ristrettezze, non poche angosce, qualche gioia, sto preparando il sacco da montagna». Raggiunse la famiglia ad Alencon, piantò la tenda in un boschetto di betulle lungo la Loira, sua figlia Eva partorì ma perdette il bambino, un'altra figlia. Vittoria, fu deportata ad Auschwitz dove morì. C'è un'altra nota di Nenni nel diario di quei giorni, segnata il 25 giugno: «Sulla porta della chiesa mia moglie ha sentito una villana rifatta congratularsi con una signora perché Pétain ci ha liberata dall'odiosa dittatura dei rossi». D maresciallo, inoltre, confinò Nenni, come ho già detto, a Le Croizet in Alvernia, i tedeschi ve lo arrestarono, e dopo avergli fatto compiere una lunga peregrinazione in vari campi di Germania lo consegnarono finalmente a Mussolini che lo destinò al confino nell'isola di Ponza. Ve lo raggiunse il duce il 28 luglio 1943: «Dalla finestra della mia stanza, scrisse Nenni nel diario, col cannocchiale vedo distintamente Mussolini: è alla finestra in maniche di camicia e si passa nervosamente il fazzoletto sulla fronte. Scherzi del destino! Trent'anni fa eravamo in carcere assieme, legati da un'amicizia che pareva dover sfidare il tempo e le tempeste della vita, basata come era sul comune disprezzo della società borghese e della monarchia. Oggi eccoci entrambi confinati nella stessa isola: io per decisione sua, egli per decisione del re e delle camarille di corte, militari e finanziarie, che si sono servite di lui contro di noi e contro il popolo e che oggi si disfano di lui nella speranza di sopravvivere al crollo del fascismo (...). Mi piacerebbe stasera riprendere con Mussolini la conversazione interrotta vent'anni or sono a Cannes, l'ultima volta che ho parlato con lui...». Il nuovo colloquio non ci fu, naturalmente, ma quando Nenni apparve in qualità di protagonista del socialismo sulla scena politica italiana, da molti fu detto che la nostra vicenda nazionale non poteva prescindere dall'esistenza di un rapporto di contrapposizione diretta fra lui e Mussolini. Scrisse Umberto Calosso che Nenni era il vero, tipico e perfetto Antimussolini. Ostava il fatto che fosse romagnolo anche lui? Infatti molti lo chiamavano, con qualche diffidenza, «il romagnolo dì turno». Rispondeva Calosso che «essere romagnolo, come essere italiano, è una cosa che può accadere alle migliori persone. In quanto al compagno Nenni, osservava, basta essergli vissuto accanto un giorno per vedere che, non solo le idee, ma il temperamento, tutto ciò che c'è di imponderabile e intimo in un uomo, è agli antipodi di ciò che fu proprio del brigante di Predappio». E Calosso citava un episodio abbastanza probante. Una notte di maggio del 1946 lo accompagnava a casa dopo il comune lavoro nella redazione ddì'Avanti!. Giunti al portone, Nenni indugiò per osservare le scritte e le figure che coprivano un tratto di muro: «Che c'è di nuovo oggi?», domandò. Scoprì una nuova forca che gli era minacciata dai monarchici, e tutto allegro rise. «V/ immaginate Mussolini in questa situazione?», domandava Calosso. Fu certamente il più acceso fra gli antimonarchici in occasione del referendum istituzionale, e il più fecondo autore di efficaci slogan rivoluzionari, sempre spregiudicati, spesso intimidatori: «il vento del nord», «tutto il potere ai Cln», «la Costituente o il caos», «la Repubblica sarà socialista o non sarà», e altri simili parole d'ordine, consegne, massime drastiche, apof tegmi generalmente tutti perentori. Ma a differenza del suo conterraneo era tu «'altro che brutale e tanto meno un satanasso. Era un uomo di cuore, ottimo padre, e la prima volta che fu al Quirinale, in giugno del 1945, per conferire con il Luogotenente del regno, il colloquio fu quasi tutto impegnato in uno scambio di umanità fra lui e Umberto: «Umane e scambievoli condoglianze, fece scrivere sull'Aiaanti! Nenni, fra due uomini tanto diversi ma entrambi duramente provati dalla rea sorte nei campi di concentramento tedeschi». Umberto infatti vi aveva perduto una sorella e Nenni una figlia. Un'altra volta scrisse lui stesso suH'Avanti! parole affettuose per i figli di Umberto: sono amori di bimbi, diceva presso a poco, ai quali auguro tutto il bene del mondo, ma lontano dal trono. Questo era l'uomo che terrorizzava i borghesi con le sue frasi incendiarie: ma il giorno dopo gli accadeva di presentarsi all'opinione pubblica nell'aspetto di una persona candida e gentile, tutta bontà e delicatezza riguardosa. Andò a Londra e gli accadde di passare davanti al numero 10 di Downing Street, la famosa abitazione del premier britannico che era allo- ra Wìnston Churchill, la bestia nera dei socialisti. «Fui colpito dal silenzio, scrisse Nenni. Si avvicinava ogni tanto una coppia di soldati o di popolani, davano uno sguardo alla finestra, scambiavano un commento, se ne andavano. Era l'ora in cui si dice che Winston Churchill si riposi preparandosi al lavoro notturno. Nella piccola e celebre via avrei voluto marciare in punta dei piedi per uniformarmi al rispettoso silenzio dell'ambiente». ** Si può senz'altro dire che di tutti gli uomini nuovi giunti alla ribalta politica dopo la fine del fascismo e della guerra Nenni è stato quello che in un primo momento è piaciuto di più agli italiani. Gli fecero un gran credito e difatti nelle elezioni per la Costituente il suo ipartito ottenne quattrocentomila voti più del pei, ed ebbe a Montecitorio 115 deputati, undici più dei comunisti. Era anche a titolo di incoraggiamento, perché si sarebbe voluto che egli si sganciasse dai comunisti fin da allora, ciò che mancò di fare e che gli italiani non gli perdonarono mai. Se lo avesse fatto, avrebbe avuto dalla sua parte gran parte dell'Italia, forse De Gasperi stesso avrebbe dovuto cedergli il passo, la Repubblica non sarebbe nata con qualche venatura guelfa e clericale, la nostra storia insomma avrebbe avuto un corso differente. Ma non è giusto, mai, revisionare la storia sulla base dei «se», né questo è il luogo per una analisi delle contraddizioni di Nenni durante il corso della sua carriera. Parlandosi piuttosto della sua personalità, qui resta ancora da notare che il giorno in cui Nenni lanciò quello che forse è stato l'ultimo degli slogan suggestivi che erano la sua specialità («entrare nella stanza dei bottoni») ammonì con realistica saggezza che ormai lo Stato non era più «l'esclusivo consiglio di amministrazione dei prevalenti interessi borghesi». Bisognava superare la vecchia retorica di classe, bisognava che i lavoratori acquistassero il senso dello Stato: «Il senso dello Stato è la giustizia», proclamava. «Non c'è più grande rivoluzione dell'instaurazione della giustizia, questa è la vera rivoluzione dei lavoratori». Non sono contraddizioni, ma intuizioni politiche felici di un lurido analista, attento calcolatore. Egli aveva del resto, a differenza del semplicismo di molti, il genio della semplificazione. Nel luglio del 1963, quando Kennedy fu a Roma per due giorni, e aveva chiesto particolarmente di parlare con Nenni, si aspettava di incontrare quel focoso personaggio che nella comune opinione degli stranieri ha da essere il leader socialista di un Paese mediterraneo come è l'Italia. Si trovò di fronte, una sera nei giardini del Quirinale, «un autentico uomo di Stato», come ebbe a definirlo dopo un lungo colloquio. Nenni, il felice semplificatore, era stato difatti forse l'unico fra gli interlocutori italiani di Kennedy in quella circostanza a riuscire a spiegare al Presidente Usa la nostra situazione in termini accessibili anche a uno straniero. Ne abbiamo l'essenziale in un suo taccuino: «Kennedy crede che noi italiani abbiamo un importante ruolo da affrontare in Europa». Nenni gli aveva obbiettato: «Per il momento, in Europa c'è De Gaulle e basta...». Kennedy: «Ma De Gaulle è un uomo di trecento anni or sono. Lei è un uomo dei nostri tempi». «E lei del futuro», gli rispose Nenni ricambiandogli con gentilezza il complimento. Era come un'apertura che Kennedy faceva all'Italia, e che Nenni naturalmente avrebbe voluto approfondire: «Ma i minuti sono volati via, si legge ancora nel suo taccuino, e bisogna prendere congedo». Avevo assistito al colloquio da lontano, e corsi da Nenni per domandargli: «Che cosa le ha detto il Presidente?». «Mi ha detto cose così gentili sull'Italia e su me stesso che avrebbe¬ ro confuso di soddisfazione chi non sapesse, come io so, che stiamo con il sedere per terra. I, nostri problemi sono come gli iceberg dei mari artici: solo una piccola parte è allo scoperto, ma la più grossa sta sott'acqua e non la vediamo nemmeno». Ci si poteva cogliere una sorta di pessimismo che si credeva una componente essenziale del suo carattere. Ma era un pessimismo che non aveva nulla a che vedere con la disperazione, e mai lo avrebbe indotto ad abdicare, a rinunciare ai doveri dell'impegno di lotta. Proprio per la grandezza smisurata dei bisogni, Nenni ha difatti continuato sempre a sentirsi in obbligo di dare il suo contributo, anche quando l'età gli si era fatta tarda. Vittorio Gorresio IP!! '. l - "SS: ■iSSiisiSjs::. R Ni (d d ii) ii dli Ei l i D Gi A Roma. Nenni (secondo da sinistra) ministro degli Esteri nel primo governo De Gasperi. A destra Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, e Corbuio, titolare del dicastero delle Finanze Pechino, 1955: Mao firma la tessera del psi a Nenni e alla moglie Carmen, in visita in Cina