Scaccia, un camaleonte nel palazzo di Nerone

Scaccia, un camaleonte nel palazzo di Nerone Il testo di Terron al Gobetti con la regia di Mattolini Scaccia, un camaleonte nel palazzo di Nerone TORINO — Un mattatore di gran classe. Mario Scaccia, chiede ad uno dei pochi drammaturghi italiani in regolare attività di servizio (e da quarant'anni esatti), Carlo Terron, di cucirgli addosso, come un lustro aderente abito alla moda, un copione su un personaggio prediletto sin dall'adolescenza, Nerone Imperatore. Terron, nell'accettare. degrada il personaggio Scaccia ad uno di quei guitti sentenziosi e molto vocioni che. ancora, imperversano tra corridoi e camerini di teatri, neppure di provincia. Quanto al proprio personaggio, il personaggio-autore, lo trasumana, parodisticamente, nelle fattezze, lignee e immobili, di uno Shakespeare, che — a dispetto di molte incursioni tra Giulio Cesare, Antonio, Coriolano — di Nerone proprio non si è mai, cocciutamente, voluto occupare. Ma l'altro, il guitto, la tragedia che quel testone del Bardo non ha voluto scrivere, la scriverà da sé: gliela reciterà in faccia al vecchio Willie. calpestando, con stizza rabbiosa, vecchi miti, distruggendo luoghi comuni, sfatando logore dicerie, smentendo abbietti pettegolezzi. Cosa resta, alla fine, dell'incestuoso, sadico, folle dittato- re romano, dopo quella «rigenerazione», che il guitto, a metà invasato e a metà estatico, opera sulla sua vecchia carne? Restano non già le sparse membra di un grand'uomo su cui annalisti di corte, avversari, complici avrebbero, a proprio uso e consumo, infierito: ma lo scheletro di un attore della storia e nella storia di un istrione indefesso di se medesimo, di un ribaldo trasformista del proprio ruolo, giorno dopo giorno. Ora abbiamo capito perché il suo devoto lo venera: egli fu il più assiduo fedele al rito stesso cui l'altro, quotidianamente, presta il proprio modesto ossequio, il rito della finzione. Fingendo dunque di reinventare liberamente il nervoso profilo d'uno dei più discussi protagonisti della nostra storia antica, Terron ha, per la verità, scritto, anche lui, la propria disincantata elegia sul teatro nostro contemporaneo. Peccato che un sovrappiù di nostalgica febbre, di non sfogata tenerezza 10 conduca, talvolta, ad abbandonarsi ad un centrifugo flusso verbale, in cui lo spettatore stenta a raccapezzarsi. Ci sono, ad esempio, oltre ed accanto a Nerone, le figure della madre Agrippina e del pedagogo Seneca: e francamente alla prima avremmo volentieri rinunciato, mentre 11 secondo ci pare, anche in chiave di grottesco, com'è tutto lo spettacolo, ridimensionato in modo eccessivo. Chi, in quel triangolo di personaggi, in quella convulsa pioggia di parole che s'irraggiano a pulviscolo, si trova del tutto a suo agio è, ovviamenta, Scaccia. Per un attore che non ha mai nascosto di concepire il teatro come un gratificante sfogo narcistico che cosa sono mai tre personaggi? Troppo pochi, semmai: e infatti, non dico li interpreti, ma li soggioga e li cavalca, al diapason del proprio camaleontismo. Con Nerone è beffardo, vitalista, caustico, appassionato, scurrile, disarmato, codardo, tronfio, ingenuo, tutto a gradi e tutto in una volta; in Agrippina infonde un sostenutezza da virago-baldracca, da madre vedova-puttana; e in Seneca innerva un filo appena di pretesca innocenza. Dietro a lui e con lui recita, è il caso di dirlo, quella bellissima scatola di lacca rossa, che si espande in quinte ed ante di proscenio, ideata dallo scenografo Eugenio Guglielminetti, a far da palazzo, lupanare, tempio; mentre il giovane regista Mattolini, alla sua seconda sortita, asseconda pudibondo gli estri sulferei dell'attore con ben dosato gioco di luci e variegati effetti d'arie da melodramma, in sottofondo. Alla prima di martedì scorso al Gobetti eravamo, davvero, troppo pochi: ma Scaccia ci ha ripagati con tutta una serie di staffilate a colleghi, registi, enti pubblici e privati. Guido Davico Bonino Mario Scaccia, attore solista per tre personaggi

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