Buoni e cattivi in Lohengrin di Massimo Mila

Buoni e cattivi in Lohengrin Buoni e cattivi in Lohengrin (Segue dalla l'pagina) facilità) bensì un santo, e quindi arriva e recita sempre a tesu nuda. Meno male che non hi chiesto l'aureola. Ma lo scudc — dato che lo scudo lo accetta — avrebbero potuto dargliele crociato, per sottolineare quella tinta un po' democristiana, anzi. Comunione e Liberazione, che aleggia su tutta l'opera e la rende un poco uggiosa in confronto al pagano realismc del «Ring». Scherzi a parte, vocalmente è un ottimo tenore, con una voce perfettamente adeguata alle grosse difficoltà della parte, e una chiarezza di dizione per la quale non sarà mai sufficientemente elogiato. Ma, sottraendosi a qualsiasi suggerimento di regìa, fa spettacolo per conto suo: povero spettacolo, in verità, perché scenicamente è nullo. Né molto più efficace attrice risulta Anna Tomowa-Sintow come Elsa, vocalmente meno autorevole e forte: ci sono in Italia alcuni soprani, anche oscuri, che si sarebbero potuti rischiare nella parte con pari probabilità di successo. Molto meglio vanno le cose nella coppia dei cattivi, il baritono Siegmund Nimsgern, in irresistibile ascesa da alcuni anni (da quando cantò nel «Tristano» a Torino) candidato alla successione del grandissimo Fischer-Dieskau. Voce possente, recitazione energica, colorita, movimenti scenici vigorosi ed appropriati. Insomma, un personaggio, anzi, quel personaggio. Lo stesso discorso si deve ripetere per il mezzo soprano Elizabeth Connell: quando ci sono loro in scena, questa si anima e vive, sicché perfino la tenebrosa mezz'ora del loro dialogo notturno nel second'atto è riuscita così efficace e appassionante come rare volte accade. Merito anche, anticipiamo, della direzione analitica di Claudio Abbado che ha sviscerato tutto quel verminaio di temi intrecciati e l'ha vivisezionato come su un tavolo operatorio. Buonissimo anche, per voce e scena, Aage Haugland nella parte di Re Enrico ed all'altezza della serata eccezionale il tenore Welker come Araldo, i quattro nobili brabantini e i quattro paggi. Splendido il coro, rinforzato da un reparto maschile del Coro da Camera della Radio Bulgara. Romano Gandolfi. che ha amalgamato perfettamente i due gruppi, va questa volta portato sugli stessi scudi su cui va innalzato il solito grandissimo Abbado, preciso come un calcolatore elettronico lungo tutto l'arco dell'opera, ma anche scatenato e indemoniato nei finali primo e secondo. Delle scene di Ezio Frigerio poco si può dire, perché sono quasi sempre nel buio pesto, salvo per un paesaggio di fiume e montagne che appare nella seconda parte del primo ed ultimo atto. Per quel che se n'è visto, sono molto grandiose e macchinose, con ronconiani movimenti di colonne ed altri elementi per suggerire e dissi¬ mulare gli eventi miracolosi dell'azione. Purtroppo queste scene scambiano gli esterni del primo atto con interni, imperdonabile quanto frequente errore di scenografi e registi, ignari che un compositore non scrive la stessa musica per una scena all'aperto o per una sala chiusa. Strehler si è lasciato trascinare in un'operazione di messa in scena sfarzosa, con molti stendardi, colonne altissime, tenebre suggestive sciabolate da improbabili fasci di luce. Pareva un poco d'essere ritornati alla Scala della triade Ghiringhelli - Wallmann - Benois, quando la ricchezza era il parametro della messa in scena. Naturalmente, quando il regista ha trovato nei cantanti materiale malleabile — e perciò non nei due protagonisti — l'unghia del leone si fa magnificamente sentire. Successo trionfale, in proporzione, appunto, alla ricchezza dello spettacolo. Massimo Mila

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