Quando si possono salvare le aziende senza creare danni sociali per tutti

Quando si possono salvare le aziende senza creare danni sociali per tutti La sopravvivenza di molte industrie cade sull'intera collettività Quando si possono salvare le aziende senza creare danni sociali per tutti TORINO — Un tempo, i «bubboni» maggiori erano la Sir di Nino Rovelli, la Liquigas di Raffaele Ursini, l'Egam di Mario Einaudi. Ora ci sono le Partecipazioni Statali (Iri, Eni, Efim) che da sole, a fine anno, avranno accumulato debiti per oltre 40 mila miliardi (tanti quanti sono i Bot che avranno in mano i cittadini) e che costeranno a ciascun italiano circa 650 mila lire. Poi c'è l'Enel, che da sola ha 18 mila miliardi di debiti (tre volte quanti ne ha la Sip) e un «buco» di 1500 miliardi. Infine ci sono le Ferrovie, le «municipalizzate» e tutte quelle aziende che. a diritto o a torto, appartengono ormai al cosiddetto «cimitero finanziario degli elefanti». Non è tutto. Accanto a queste imprese (Alfa, Finsider ecc.) c'è un esercito di piccole e medie imprese che hanno l'acqua alla gola, che rischiano di morire strangolate dai debiti, o per mancanza di liquidità, o perché il settore in cui operano è irrimediabilmente in crisi. E anche qui l'elenco sarebbe interminabile: si va dal «caso Piemonte» (Indesit, Ceat Pneumatici, Pianelli e Traversa, Maiocco, tanto per citare i maggiori) alle 206 aziende tessili in crisi in Lombardia, alle ciminiere che si spengono nel settore dell'acciaio, alle aziende travolte dalla crisi. Tanta crisi (produttiva e di risorse) pone però subito una domanda. Fino a che punto (come si chiede d'altronde, nel suo giro nell'Italia disastrata, il ministro De Michelis) sono leciti oggi i «salvataggi» a tutti i costi? Fino a che punto insomma le banche, il governo, i sindacati devono tenere in piedi aziende «decotte» che non solo «bruciano» denaro, ma impediscono di creare nuove risorse, quindi nuovi posti di lavoro? Per quanto riguarda il Piemonte (ma il discorso vale per l'intero Paese) lo abbiamo chiesto a una banca, l'Istituto San Paolo, a industriali e a un sindacalista. Fausto Bertinotti, segretario regionale della Cgil, che qualche giorno fa ha presentato la prima vertenza regionale, quella sul «caso Piemonte». — Bertinotti, fino a che punto le banche, sotto la spinta delle forze sociali, che premono per l'occupazione, devono salvare un'azienda? «Noi, come sindacato, aprendo la vertenza sul "caso Piemonte", abbiamo distinto la crisi che ha investito i grandi gruppi, per la quale abbiamo coinvolto il governo, e quella che investe le medie aziende — dalla Ceat, alla Nebiolo, alla Pianelli — travolte da problemi finanziari, manageriali, di mercato. E abbiamo anche detto che se si pensa che queste imprese hanno come unico sbocco l'amministrazione controllata, ciò vuol dire che oggi non si dispone di uno strumento di politica industriale, che va inventato». — In che modo? «Il modo c'è. Noi siamo convinti, non solo da oggi, che per supplire le carenze di politica industriale nazionale, ci vorrebbe un rapporto più stretto tra il sistema creditizio e quello delle autonomie locali, in grado di individuare, nel lungo periodo, linee privilegiate di intervento. Questo rapporto non c'è mai stato e il sistema bancario, spesso, è stato come un muro di gomma, che ha reagito in maniera nervosa a tutte le sollecitazioni. Oggi però le cose sono cambiate. Siamo in una situazione particolare, dove gli aggiustamenti fisiologici, propri delle fasi espansive, non bastano più. Le banche sono già esposte verso le aziende e tendono il più delle volte a cautelarsi spingendo verso l'amministrazione controllata». — E questo cosa cambia? «Rovescia tutti i discorsi. Vuol dire che non basta più individuare una linea attiva a monte dei processi, ma occorre anche fare qualcosa di nuovo, che vada al di là del coordinamento, sia pure importante, dei crediti agevolati. In poche parole, si potrebbe anche dire che, al punto in cui siamo giunti, la separazione tra credito e politica industriale rende difficile, se non impossibile, un reale risanamento». — La situazione, in molti casi, è dunque senza vie d'uscita? «No, tanto che abbiamo aperto una vertenza, credendo nei suoi sbocchi. Ciò che però voglio dire è che oggi bisognerebbe fare un salto di qualità: pensare, ad esempio a un pool di banche, finanziarie pubbliche (Finpiemonte) e capitali, anche privati, che sia in grado di darsi strumenti, al suo interno, per avere un quadro preciso delle crisi delle aziende. Si tratta, insomma di trovare una strumentazione nuova, che non esiste ma renda in qualche modo possi bile queste ricognizioni sistematiche, per capire le vere radici della crisi e intervenire di conseguenza». Cesare Roteati

Persone citate: Bertinotti, De Michelis, Fausto Bertinotti, Maiocco, Mario Einaudi, Nebiolo, Nino Rovelli, Pianelli, Raffaele Ursini

Luoghi citati: Italia, Lombardia, Piemonte, Torino