Come Hollywood diventò tedesca (memorie della grande invasione) di Stefano Reggiani

Come Hollywood diventò tedesca (memorie della grande invasione) CONVEGNO A VENEZIA, FESTIVAL A MILANO, MOLTE DOMANDE Come Hollywood diventò tedesca (memorie della grande invasione) DAI NOSTRO INVIATO SPECIALE VENEZIA — Sulla metà superiore del manifesto c'è un transatlantico risplendente di tutte le sue luci, lascia in mare una coda di barbagli luminosi, dal cielo lo protegge una scritta: «Vienna-BerlinoHollywood*. Potrebbe essere il Normandie con l'apparenza del Rex felliniano, perché si sta parlando di cinema, di quel fenomeno di emigrazione intellettuale dal centro-Europa all'America che dagli Anni 20 alla soglia dei 40 portò registi e attori a inventare una parte di HolIvuood. forse a codificarne lo stile produttivo ed espressivo. Magari più che una grande emigrazione fu un'invasione (quasi un migliaio tra artisti piccoli e grandi). La meditazione-celebrazione sulla Mittcleuropa di Hollywood è cominciata venerdì a Venezia con adeguato convegno e opportune proiezioni, proseguirà a beneficio del pubblico per tutto novembre e dicembre a Milano, andrà poi. come un festival itinerante, a Bari e a Bologna. Lubitsch, Reinhard!, Preminger, Wilder, Zinnemann. Peter Lorre. Mariene Dietrich: si sono sempre trattati rispettosamente uno per uno. come esuli irripetibili, adesso stanno tutti in gruppo, sono il Fenomeno. Forzando le date, ma non l'immaginazione, si può fingere di vederli didatticamente riuniti, questi emigratili-invasori, sul Normandie che somiglia al Rex. Che cosa cercano? Che vogliono? Da che fuggono? Per dirla con la vecchia domanda ebrea: lontano da dove? Ecco il transatlantico in piena effervescenza notturna, con tutti i suoi ospiti. Ci sono anche gli antesignani taciturni, i primi arrivati, Erich von Stroheim e Joseph von Sternberg: scrutano il mare dalla sala poppiera, senza parlarsi. L'uno coltiva la sua grandezza spregiatnee (da 'Uomo che vorreste odiare*), l'altro pensa alla sua scoperta europea, a Marlene e all'Angelo Azzurro, alla sua Vienna natale («Una splendida città è diventata il volgare parco dei divertimenti del mondo»). Marlene Dietrich, in un salottino. sta prolungando ad arte il pranzo col comandante, dicono che Hitler fosse innamorato di lei. e ci sono già nell'aria le parole di Hemingway («/Von imporla come spezzi il cuore n uno, se poi lei è là. anche solo per ricomporne i frantumi»). Nella sala delle feste il berlinese Ernst Lubitsch dirige le danze, e ogni tanto allunga sulle coppie la mano impagabile, il famoso «tocco di Lubitsch* (lui che riuscirà a rendere comica anche Greta Garbo). In un valzer William Dietcrle racconta come andò: «A Berlino si usava di- re per scherzo, quando squillava il telefono in un ristorante: "Deve essere Hollywood". Una sera mia moglie ed io eravamo a cena fuori e capilo davvero*. Ad un tavolo Max Reinhardt ha una piccola corte, lui che fu il padre artistico della colonia mitteleuropea: «Ciò che finora a manca è il poeta del film, il poeta del parlato, il poeta per definizione che ha l'orecchio e l'occhio della grande massa e nello stesso tempo è poeta per grazia divina *. Come al solito, vede lungo, è un anticipatore dei sogni. Ci sono persino Pahst, l'infelice che tornerà a Vienna, e Murnau, il genio che non potè vivere nel sonoro. E poi i grandi prolifici. Curtiz (che farà Casablanca, film simbolo della fuga dall'Europa), Sirk. venerato artefice del melodramma, Ulmer regista di serie B che attende la sua rivalutazione. Molli hanno acconcialo il proprio nome alla pronuncia americana. Che cosa li distinguerà in seguilo dagli americani, se non la capacità di essere più bravi? Sul ponte passeggiala c'è un viaggiatore scontroso, uno the non dà confidenza. Fritz lane, sogghigna: ha mosti.ito al cinema il nascere della bestia nazista e Hitler voleva farlo artista del regime. In una cabina, giurando di non mettere piede nei saloni e sui ponti, sia chiuso Bertoli Brecht, che ha in pedo un tesoro di soggetti, ma che va ad Hi ;i. wood come un nemico. Se Lubitsch immagina *una delle più belle e nube metropoli del mondai. Brecht prepara la sua poesia: «Ogni giorno vado al mercato I dove si vendono le menzogne I per guadagnai mi il pane l pieno di speranza mi allineo tra i venditori». E vorrebbe che il transatlantico fosse la nave di Jenny, «mila vele e <annoiti*. Possiamo benissimo supporre che nella sala di lettura stessero già gli studiosi e i testimoni convocati a Venezia dalla Biennale, idealmente erano già nati lutti: il coordinatore Roberto Calasso con l'equipaggio accademico Ghezzi. Magrelli. Spagnolctti. Vitalone e Pislagncsi. La Milteleuropa è un male che si attacca all'anima, e. quanto ai testimoni, pare che attendano solo di crocifiggersi ai propri ricordi, Walter Reisch (appunto), lo sceneggiatore di Titanici. Hern Horncr. Shirley Ulmer, la vedova del dimeniicato Ulmer («Faceva un film in dieci giorni, dormivamo con le pizze di pellicola sotto il letto, e quando ebbi un bambino lo allattavo leggendo il copione sul set»). Nel transatlantico della grande migrazione forse il carico più prezioso sta nelle slive, imballato frettolosamente con le sue etichette in carattere gotico: Freud, nazismo. Krisis, Weimar, grande Vienna, espressionismo, guerra, inflazione. Heil Hitler, resistenza, fuga in Francia. Yiddish, ebrei, caduta dell'impero. Tutto alla rinfusa, lutto ordinalissimo, il girotondo di Schmtzler e il dottor Mabuse. il gran teatro di Reinhard! e il mostro di Dusseldorf. Adesso che. sulla nave, i grandi e i piccoli autori si sono riuniti per costituire il Fenomeno, si capisce quale opera eccezionale di trasporlo essi compirono sulla rolla culturale Berlino-Vienna-Hollywood. In principio fu la necessità del talento, la ricerca delle grandi occasioni, il richiamo dell'industria vincente; poi la paura dell'Europa, la fuga dal nazismo, la persecuzione razziale, gli ultimi giunsero in America alla caduta della Francia. Ma col trasloco attuarono un trapianto. Ha osservato Cimali: rappresentavano la grande vitalità della cultura nella crisi, avevano bisogno di incontrare il realismo americano per non essere distrutti dal pensiero della fine, dalla malattia di Vienna. Ha osservato Calasso: HolIvwood era senza soggezioni e pregiudizi, macinò la cultura e se ne impadronì, la usò per il suo profitto e la sua crescila. Hollywood catturò gli esuli, li mescolò alla sua natura ibrida, ma insieme sub! il lor>) metodo, la loro furia sul lavoro, i loro contenuti, i loro tic espressivi, la loro organizzazione, il peso di Vienna, il peso di Berlino. Anche il prodotto, il film, era segnato, nella misura, nella confezione, dalla tecnica europea. Possiamo dirlo (con fierezza, con cinismo?) dopo lami anni di prova, mentre le navi di ritorno e gli acrei sono pieni sino alla sopraffazione di film «americani*. Stefano Reggiani Marlene Dietrich ne «Il giardino di Allah», film girato a Hollywood nel 1936