Volontè e la Gravina lugubri amanti nella giostra mortale di Schnitzler

Volontè e la Gravina lugubri amanti nella giostra mortale di Schnitzler «Girotondo» all'Eliseo: all'anteprima era presente tutta la Roma teatrale Volontè e la Gravina lugubri amanti nella giostra mortale di Schnitzler L'attore, in palcoscenico dopo 10 anni a fianco della ex moglie, ha firmato la sua prima regia - Non convincente la rilettura del dramma che appiattisce anche l'interpretazione ROMA — MI immergo nel rossastro catino dell'Eliseo, in cui s'è dato appuntamento il «tutto-teatro* romano per l'anteprima di Giwtondo di Arthur Schnitzler, che segna il ritorno alla prosa, dopo una decina d'anni, di Gianmaria Volontè attore e regista, affiancato dalla ex moglie Carla Gravina: e la prima immagine che mi colpisce, folgorante, è quella della piramide irregolare di alti tendaggi bluastri che invade, quasi presidia l'intero palcoscenico. Si alzeranno di scatto, di 11 a poco, quelle tende, immense e lugubri, per svelare una sequenza ininterrotta di porte, ad uno o due battenti, con le loro lesene sinuose, i vetri opachi, l'ocra e l'azzurro del più puro stile liberty. Siamo in tanti, in un nolo boudoir in un'alcova della Vienna fine secolo che è il concentrato di tutte le alcove dell'imperialregia capitale. All'intorno è come recinta da un avvolgente toboga, che sfocia laggiù, in quel tempio dell'amore che, per la verità, con le sue vaste, panneggiate lenzuola bianche, ma chiazzate di sangue, sparse un po' dappertutto, con i suoi diafani canapè, ha qualcosa di una Morgue spettrale, in cui morte s'annidi imperiosa. Se vi ho descritto con un certo puntiglio l'impianto scenico, ideato dal pittore Mario Ceroli, è perché in esso si legge, in termini perentorii, il progetto critico su cui si fonda la radicale (ahimé, troppo) rilettura di Giwtondo da parte di Volontè. L'attore-regista parte dalla invero elementare costatazione che questa commedia (il mosaico, nell'originale, dell'avventura amorosa di dieci coppie, diverse per età, censo, classe sociale, sullo sfondo di una autunnale, va* gamente torbida e malata, capitale absburgica) sia fondata sulla circolarità e la ripetizione: le dieci storie non solo si mordono la coda l'una con l'altra, ma sono la stessa storia, iterata per lievi variazioni. La ronda in cui le vicende sono, per di più, risucchiate non è soltanto una giostra amorosa, è un vortice d'amore e morte: e forse tutto quel turbinio d'immagini, sensazioni, parole e suoni non è tanto la memoria ad averlo attivato quanto il delirio di un unico sogno ad occhi aperti: un sogno da riraccontare ad alta voce, quasi sul lettino dello psicanalista (non fu Schnitzler un esplicito ammiratore di Freud, non fu, in proprio, l'autore di un libro come Doppio sogno?). Ecco allora che le dieci coppie sono una sola, un Lui in nero gabbano di cera, il volto di biacca su una folta zazzera ricciuta; una Lei che appena muta di sopraveste, qua il logoro pellicciotto della puttana, là la redingote della signora in odor d'adulterio, ma sempre lo stesso viso bistrato, la stessa smorfia di stanco disgusto. Scende, lei, come avrete già intuito, da quello scivolo degno del Prater: l'attende, lui, in basso, sdraiato, in una fiacchezza ancora più disgustosa, su quel letto immondo, su quel rigido divano. Si dicono e ridicono, mediate dallo stesso attacco («E allom, dottove?»), le loro incomprensioni, le loro stizze, il sordo rancore: ed anche quando la voce s'incrina e pare cedere ad una malinconia più segreta, ad una più fraterna solidarietà, il tono è sempre quello, di una disperazione fonda, senza scampo. Intorno ai due amanti, su cui ti sembra di vedere ac¬ camparsi una livida falce, s'aggirano, come lemuri, cinque personaggi dello stesso incubo: un servo di scena, dal torace glabro, una maschera trasparente, che ne propizia entrate ed uscite, muto psico pompo: una adolescente nuda, biondi i capelli, niveo il seno, nera una cinta all'ingui ne; una viperina femmina d'angiporto, uno zerbinotto in grigia marsina, un efebo torreggiante avvolto in un manto rosso ad occhi di pavone (il nume tutelare del giovane costumista Aldo Buti è, ovviamente, Gustave Klimt). Sono, com'è facile intuire, le proiezioni, dei Due, i loro doppi, che mostrano, a vista, in turpi avvolgimenti, l'abisso ripugnante che le loro parole occultano. Che dire, in sintesi, di questo spettacolo tanto sommario da non lasciare mai alla atroce leggerezza di Schnitzler, alla sua drammatica fatuità, un attimo di respiro? Che scrivere di questa recitazione cosi cupamente monotona da non permetterti mai di giudicare e di concedere ai due interpreti (che pure sarebbero ben altrimenti versatili) il riconoscimento di una minima duttilità? Nient'altro che si tratta di uno spettacolo serio, probabilmente, nelle intenzioni, ma senza inventiva, senza levità, senza fantasia nei risultati: cosi schematico che lo decifri dopo un quarto d'ora, faticando, in compenso molto a reggere alla noia dell'ora che ancora ti attende. Guido Davico Bonino Maria Volontè Gravina coppie amanti.

Luoghi citati: Roma, Vienna