La perduta civiltà dei campi

La perduta civiltà dei campi UN ABISSO L'HA SEMPRE DIVISA DAI «BENPARLANTI» La perduta civiltà dei campi Già prima del 1910 l'etnografo Arnold Van Gennep affermava che ogni società generale comprende numerose società particolari, e che queste sono tanto più autonome (e i loro contorni risultano tanto più precisi) quanto inferiore è il grado di civiltà raggiunto dalla società generale. Ma applicando un tale punto di vista allo studio della società italiana si vanifica l'esemplificazione avanzata dal Van Gennep, secondo il quale nelle società moderne separazioni abbastanza nette esistono soltanto tra laicismo e religione, tra il profano e il sacro. Da noi invece più che di separazione è il caso di parlare di una frattura abissale (i cui inizi vanno forse posti verso la metà del Duecento, almeno in talune zone del territorio) una vera e propria polarità opposta tra società del potere e società contadina. Lo spazio vieta di accennare soltanto ai risvolti religiosi di tale alternativa, che, ad esempio, ha prodotto da un lato le raffinate immagini sacre di un Bot ticelli o di un Tiepolo, dall'altro gli ex-voto, o che ai cori di Pierluigi da Palestrina e alla elaborata regìa delle cerimonie cui essi erano destinati contrappone lo strusciare delle lingue sui pavimenti dei santuari. Ma, come sempre, è nel campo della letteratura che il fossato si dichiara nella sua enormità, e specie a partite dalla Restaurazione post-napoleonica, quando la grande paura di una rivoluzione autenticamente sociale ed economica affinò le menti di chi temeva di perdere la propria posizione. Non è a caso che le nostre scuole concedono tanto spazio alla manzonilatria, al culto di un autore che, oltre a ripudiare l'Illuminismo laico, fornì il perfetto modello della lingua alta, opposta a quella bassa dei dialetti, al mezzo cioè di espressione verbale delle masse sottoposte (nella stragrande maggioranza di estrazione contadina), al quale veniva negata ogni validità, dignità e potenziale qualitativo. Non che nell'Ottocento la frattura linguistica fosse, in Italia, una novità, perché Yancien regime nostrano aveva prodotto qualcosa di analogo, da secoli; ma ora non c'erano più le Corti, e quella nefasta dicotomia serviva soltanto gli interessi di un'astuta oligarchia piemontese e lombarda, che pervenne a snaturare i moti risorgimentali, mascherando, sotto gli slogans di libertà e indipendenza, l'opera spietata di colonizzazione del Sud, spacciata per un processo di unificazione. . . Ci sarebbe da compilare una straordinaria mappa della letteratura italiana dal 1840 circa in poi come strumento alienante, avulso dalla vita di tutti i giorni, grazie alla progressiva decantazione di un'alchimia tematica e verbale sempre più spinta, che dai ceselli dannunziani fin de siede è passata ai finti purismi e agli ermetismi degli Anni 30, con il fenomeno del critico-prosseneta, sino all'odierno pullulare di premi e premiucci letterari, dove quasi sempre la fabbrica dei libri da dimenticare gratifica se stessa. E resta il fatto, innegabile, che in questo dopoguerra, i due autori che hanno rappresentato due autendci casi di validità, Giuseppe Tornasi di Lampedusa e Guido Morselli, sono ambedue morti nell'avvilita disperazione, per il rifiuto de\Yestablishment di dare alle stampe i loro scritti. Tutto ciò è triste; ma il panorama diviene tragico al considerare l'aspetto repressivo del potere benparlante, anche a tralasciare quel tipico fatto di guerra contadina che fu il cosiddetto banditismo nel Sud unificato. Non sono né i poli tifi di professione, né gli intellettuali parolai e utopistici a precipitare le vere rivoluzioni, bensì le scoperte scientifiche e tecnologiche; e quando (grazie agli enormi progressi economici e tecnici toccati nell'Ottocento) le masse contadine d'Italia cominciarono ad uscire dal letargo, il rimedio prescelto per farle stare al loro posto fu la pura e semplice soppressione fisica. In realtà, la Grande Guerra fu una colossale strage contadina; e se è vero che lo fu non soltanto in Italia, è altrettanto vero che in nessun altro Paese l'intervento fu voluto e sollecitato da una esigua minoranza, contro il volere dei più, e senza scopi di guerra precisi: con il risultato di spezzare il democratico progresso degli italiani, e di aprire una crisi che dal 1915 ad oggi non si è più chiusa. E anche qui, che temi di ri- cerca si aprono agli studiosi! Vedremo mai un repertorio illustrato dei Monumenti ai Caduti, con il loro sfoggio di retorica (donne alate e poppute che sorreggono il fante in mollettiere, astrusi simbolismi, riprese neo-michelangiolesche e simili), retorica destinata a fruitori che, relata refero, avevano un reddito annuo uguale suppergiù a quello dell'India dei nostri giorni: lo vedremo mai? Una pubblicazione del genere costituirebbe un perfetto, significativo punto di riferimento per leggere nella giusta luce un'altra opera, di grandissima importanza, uscita ormai da quasi un anno presso l'Editore Longanesi, // lavoro dei contadini di Paul Scheuermeier, che ha per sottotitolo Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza. L'autore era nato nel 1888 a Winterthur, e morì nel 1973; e nella valutazione del suo enorme lavoro deve anche esser tenuta presente, per noi italiani, la sua appartenenza ad un Paese che certo radical-chic e certa pseudo-sinistra nostrani amano vilipendere, offendere e calunniare (anche per ripagarlo, more italico, di quanto fece per i nostri profughi tra il 1943 e il 1945). L'opera, in due massicci volumi, è illustrata da novecentovenridue disegni e xilografie, e da ottocentosettantatré fotografie, i primi dedicati a strumenti e attrezzi di lavoro, le seconde prese dal vivo durante numerosi viaggi in Italia, tra il 1919 e U 1935. Queste ultime sono di eccezionale interesse documentario, soprattutto oggi quando la meccanizzazione dei lavori agricoli e l'abbandono di molte tecniche e culture tradizionali hanno alterato e sconvolto per sempre un tessuto di artigianato, di ecologia e di costume che in molti casi risaliva anche ad età preromana, conservando persino, come in certe ricette di cucina, le formule della civiltà celtica comune a tutto l'arco alpino (ecco un altro tema che attende un ricercatore). La struttura mentale di Paul Scheuermeier era quella di un positivista ottocentesco, e la sua metodologia seguiva quella dello Sprach und Sachatlas Italiens und der Siidschweiz, cioè àdYAtlanle linguistico-etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale, pubblicato in otto volumi tra il 1928 ed il 1940 da K. Jaberg e J. Jud; nell'economia generale di quest'opera monumentale, i due volumi del Lavoro dei contadini (Bauernwerk) avrebbero dovuto costituite la parte illustrativa. Ma l'eccezionale felicità e grandiosità del risultato finì con il conferirle un valore del tutto autonomo. * * C'è anche da dire che VAdante si sosteneva sulla convinta certezza che, in tutte le lingue, parole e cose hanno un rapporto di interdipendenza, quindi era indispensabile procedere parallelamente ad una ricerca linguistica e ad una ricerca materiale. E in questa, l'aver corredato disegni e xilografie (dovuti a Paul Boesch) con immagini fotografiche riprese durante l'uso diretto degli attrezzi elimina il rischio di proporre vuote astrazioni. Novecentosettanta tré foto furono esposte nel giugno scorso presso la Calcografia nazionale di Roma, con un catalogo a cura di Maria Miraglia e con saggi suoi, di Elisabetta Silvestri e di Michele Falzone. E in questi due volumi editi da Longanesi tutte le attività del lavoro contadino ci vengono riproposte secondo una partizione tematica, dagli allevamenti alla raccolta dell'uva e delle olive, dalla fienagione all'aratura e agli attrezzi, dalle costruzioni tradizionali alla cucina, al focolare, ai costumi, al bucato e ai vari mestieri. Come dicevo, è un'opera cui si augura un seguito da parte nostra, seguito che oltre ai temi già accennati dovrebbe includere quelli del contadino nella letteratura e nelle arti figurative (dove la sua immagine è quasi sempre presentata secondo connotati negativi o di intento comico) nei proverbi (scarpe grosse e cervello fino, cui non va fatto sapere quant'è buono il cacio, ecc. ecc.), sino a giungere ai nostri giorni, quando la vicenda di depressione e di paternalismo non è terminata. Oggi i rampolli del potere benparlante (spesso inastatisi nei partiti di sinistra) hanno mutato tattica: non si imbian¬ cano più la coscienza affermando le virtù di nostra gente (che è frugale, come si leggeva un tempo nelle terze pagine dei quotidiani dell'é///e, Corriere della Sera in testa) ma colpevolizzano le masse che dalla campagna sono passate alla città; così è accaduto di recente a proposito dei Bronzi di Riace, con tecniche che ricordano quelle di Teatini, Scolopi e Gesuiti. Gli odierni Nipotini di Padre Bresciani, come li chiamava Gramsci, vogliono farci credere di stare a sinistra, di essere marxisti veri e non una parodia del Marxismo. Federico Zeri Uno dei primi aratri a vapore, presentato all'Esposizione italiana del 1884