Gli spazi acustici di Gérard Grisey di Giorgio Pestelli

Gli spazi acustici di Gérard Grisey Gli spazi acustici di Gérard Grisey VENEZIA — E' cominciato bene il concerto dell'Orchestra sinfonica siciliana, attraente per due prime esecuzioni assolute, alla Scuola grande di S. Rocco: con «Arioso mobile» per flauto e piccola orchestra di Francesco Pennisi, un brano in cui la fantasia, l'elegante misura del compositore si mostrano rassodate in felice unità: si riconosce nel discorso del solista (il bravissimo Ancillotti) la capacità petrassiana di costruire attraverso l'arabesco, e nel rapporto con l'orchestra da camera c'è una robustezza di struttura ancora più essenziale che in passato. Molto più grosso il lavoro successivo «Les Espaces Acoustiques» di Gerard Grisey, trentacinquenne prodotto delle scuole di Francia e Germania, studioso di acustica nella Facoltà di scienze di Parigi. Questi «spazi acustici» si presentano come un ciclo in cinque capitoli, «Prologue» per viola sola, «Périodes» per sette strumenti, e quindi per un numero sempre crescente di strumenti Tino alla massima densità, «Partiels», «Modulations» e «Transitoires»: il nucleo dell'opera è una ricerca sul suono e i suoi multipli armonici, organizzati in «spettri» sonori, sul tempo e sulle mutazioni impercettibili; un risultato evidente al primo ascolto è la sensazione di una musica elettronica fatta con strumenti tradizionali. Ma la ricerca prevarica un tantino sull'ascoltatore per il suo barocchismo di proporzioni; e nella vana attesa del 55" armonico, che si dovrebbe sentire, emergono frattanto muscolose enfiature, tipo «Fontana del Tritone» di Respighi. Con tutto ciò Grisey è un nome da tenere d'occhio, la sua presa sulla materia sonora rivela un Fiuto che potrà approdare a risultati di primo piano. La più meritata lode va intanto fatta all'Orchestra sinfonica siciliana che sotto la guida di Gabriele Ferro ha dato una prova sicurissima di capacità e dimestichezza con le varie, complesse tecniche sollecitate dalla partitura. La sera avanti, al Teatro Malibran, si è fatta conoscenza con due lavori dell'inglese Brian Ferneyhough e uno dell'ungherese Gyorgy Kurtag. Di quest'ultimo vorremmo riferire alla prossima occasione; dei due lavori di Ferneyhough uno era del tutto nuovo, «Lemma - Icon - Epigram» per pianoforte solo, composto su commissione della Biennale: è un pezzo che ricorda il toccatismo barocco, a tratti incandescente sempre brillante ed è valso a confermare la bravura eccezionale del pianista Massimiliano Damerini cui è dedicato. Più interessante l'altro lavoro, «Transit», scritto fra il 1972-75, già conosciuto fuori d'Italia e già consegnato a un'incisione discografica: sei voci miste e 38 strumenti usati come parti indipendenti; megalomania metafisica di testi di Eraclito, Paracelso, Ermete. Accurato impiego di vibrafono, campanelli, legnetti e altri ammennicoli per la «musica stellare» («siderale» si diceva per Daliapiccola). A parte la sicumera di attingere la musica delle sfere (che oggi, dopo che i veri scienziati registrano i cigolìi degli anelli di Saturno ci dice meno di un tempo) «Transit» è un lavoro equilibrato e convincente, forse il migliore fra quelli di Ferneyhough. Giorgio Pestelli

Persone citate: Brian Ferneyhough, Francesco Pennisi, Gabriele Ferro, Gerard Grisey, Grisey, Gyorgy Kurtag, Massimiliano Damerini, Paracelso, Respighi

Luoghi citati: Francia, Germania, Italia, Parigi, Venezia