Il Raiìss della riscossa e di Camp David

Il Raiìss della riscossa e di Camp David DA GRIGIA OMBRA DI NASSER A PRIMO ATTORE DELLA POLITICA MONDIALE Il Raiìss della riscossa e di Camp David Nel '70, quando venne proclamato capo dello Stato, era quasi sconosciuto - Veniva soprannominato «colonnello sì» e considerato un presidente di transizione - Come «tirò fuori le unghie» e sconfìsse il mito del suo predecessore - La fiducia nella buona sorte, il protagonismo e l'idealismo gli fecero commettere alcuni errori, in primo luogo la scarsa attenzione al problema palestinese che lo isolò dal mondo arabo - E anche la «purga» del settembre scorso e la cacciata dei sovietici «E tu, anima serena, ritorna in pace dal tuo Dio ed egli ti accetterà: ritorna nella mia casa e prendi posto tra i fedeli». Con questa citazione del Corano, Anwar el-Sadat, allora vice presidente, diede alla tv egiziana la notizia della morte di Nasser. Era il 29 settembre dell'anno 1970. Diciassette giorni dopo il voto popolare proclamava Sadat presidente della Repubblica egiziana, a quel tempo Repubblica Araba Unita. Solo pochi addetti ai lavori conoscevano Sadat. Ricordo che a Tel Aviv, dove mi trovavo allora, un commentatore di quella radio mi chiese: «Ma che tipo è questo Sadat? E' vero che è un mediocre?». Tale lo giudicava senz'altro l'establishment egiziano che trovò opportuno scartare la candidatura di Ali Sabri, sostenuta da Kossighin, precipitatosi ai funerali del Raiss, e quella di Zdkharia Mohieddin avanzata da Heykal sulle colonne di Al Ahram, preferendo puntare su colui che ritenevano sarebbe stato un presidente di transizione. Sadat, appunto. Alla vigilia del voto popolare, confidandosi con Sharawi Gomaa, il Fouchet d'Egitto, Sadat disse che si sarebbe accontentato del 95per cento dei voti, consapevole del fatto che per Nasser aveva votato sempre più del 99 per cento degli egiziani. La risposta del potente Gomaa fu secca: «Dovrà bastarti il 90 per cento». In fatto Sadat riscosse il 90,04 per cento dei suffragi. Ma l'uomo che il 'governo ombra* egiziano considerava un mediocre, una figura grigia malata solo di protagonismo, si rivelerà ben presto un grosso animale politico. Consapevole della tremenda difficoltà di dover rimpiazzare un «uomo-mito», Sadat agisce con prudenza e non sema demagogia. Riduce il prezzo del tè e dello zucchero, riammoderna i trasporti pubblici. Tutti i suoi primi atti di potere sono volutamente contrassegnati dalla volontà di andare 'incontro al popolo*. Sadat parla dell'Egitto come di «un grande villaggio», tralascia gli accenti planetari cari a Nasser. Dopo i poveri tocca alle classi medie: Sadat ordina che i beni sequestrati agli oppositori del regime vengano restituiti, allenta la censura e libera dal carcere alcuni intellettuali marxisti. Egli è oramai il •presidente dal volto umano*, e la sua popolarità, sempre crescente non può non turbare personaggi come Ali Sabri, in effetto capo assoluto dell'Unione socialista araba. Il Eikbash sali (il colonnello si, come lo chiamano i suoi detrattori che ricordano la spietata definizione di Sadat data da Nasser: un paio di baffi appesi nel vuoto) sta tirando fuori le unghie, occorre metterlo al passo. Siamo alla metà di maggio del 1971, sette mesi dopo l'elezione di Sadat. Messo in mino- rama dal Comitato esecutivo dell'Unione socialista araba, al quale deve in definitiva la sua elezione, Sadat parte al contrattacco facendo arrestare Ali Sabri, il ministro della Guerra Fawzi, il ministro dell'Interno Gomaa, il capo dei servizi segreti Sharaf. Avrebbe accettato le loro dimissioni, ma preferì che venissero allo scoperto per denunciare «il mostruoso complotto». Quella che in Egitto definiscono «la rivoluzione del 15 maggio 1971» si rivelerà in effetto il trampolino di lancio di Sadat. Sulla scena era apparso un nuovo Raiss, potente e deciso. Liberatosi dei nemici interni, Sadat comincia ad occuparsi di quelli esterni. I sovietici lo hanno deluso, il Raiss si è reso conto che non lo aiuteranno mai a recuperare i territori perduti. Dopo il viaggio di Nixon a Mosca, nel¬ la primavera del 1972, egli si convince che Cremlino e Casa Bianca hanno stipulato un patto per il mantenimento dello status quo nel Medio Oriente. A spese, soprattutto, dell'Egitto. Clamorosamente Sadat esce dal vicolo cieco. Il primo giugno manda una lettera a Breznev, ma solo il 7 luglio l'ambasciatore Vinogradov gli portò la sospirata risposta. Deludente, interlocutoria, offensiva, cosi la giudica Sadat che racconta: «Era il tipo di discorsi che avevano ammazzato Nasser. Mi arrabbiai e in presenza di Vinogradov dettai ordini precisi: tutti i consiglieri militari sovietici dovevano lasciare l'Egitto entro dieci giorni. Tutte le basi sovietiche dovevano passare sotto il controllo egiziano». La decisione colse di sorpresa tutti, per primi gli america¬ ni. Al popolo Sadat la spiegò cosi: «Ho cacciato i russi perché Mosca ci negava le armi che ci servono per liberare i territori occupati da Israele». In fatto, con quel gesto clamoroso Sadat aveva aperto la strada dell'Ex Obur (l'attraversamento), alla guerra del 6 ottobre che non proprio vinta, ma neanche perduta, una volta tanto, doveva a sua volta spianare la via allo «storico» viaggio a Gerusalemme del novembre 1977. Toccherà agli storici stabilire se il viaggio in terra ebraica fu un atto di estrema saggezza o il principio della « disgrazia politica* di Sadat presso le masse arabe. Rimane il fatto che la pace di Camp David, conseguenza ineluttabile dell'andata a Gerusalemme di Sadat, pur coi suoi limiti è un accadimento 'Che rivoluziona la storia*. Divorato dall'ansia di passare alla storia come il Presidente che ha restituito l'integrità territoriale dell'Egitto, Sadat trascura problemi poli¬ tici ch'egli forse semplicisticamente non reputa legati al suo sogno di restaurazione. E' questo forse il limite dì uno dei più straordinari protagonisti della nostra storia recente. L'aver negletto la questione palestinese lasciando scivolare nel tempo inutili dialoghi tra sordi sull'autonomia agli arabo-palestinesi della Cisgiordania e Gaza, fingendo di non credere alla malafede dei suoi interlocutori dei quali, per altro, doveva ben conoscere le intenzioni annessioniste, o forse, in ultimo, contando sulla baraka (la buona sorte) personale, Sadat ha finito con l'isolarsi dal mondo arabo che strumentalmente o no considera il problema palestinese l'ago della bilancia tra la guerra e la pace. Ma forse da buon contadino (era nato il 24 dicembre del 1918 in un modesto villaggio del Delta, Mit Abu el-Kom), Sadat aveva il culto dell'ostinazione e il difetto del protagonismo. Un suo amico d'infanzia racconta che un giorno «Anwar rischiò di annegare in un canale. Quando gli domandammo che cosa avesse pensato in quei drammatici istanti, rispose: Pensavo che l'Egitto stava pei perdere Anwar el-Sadat!*. Spericolato lo fu tutta una vita: cominciò giovanissimo a correre lungo i sentieri dei 'Fratelli Musulmani*; in una notte del 1938, con altri due cadetti, Nasser e Mohieddin, giurò sul Jebel Sherif di «lottare con ogni mezzo per liberare l'Egitto dallo straniero e ridargli dignità nazionale». Quel giuramento segnò l'inizio del movimento di quegli ufficiali liberi che nel 1952 cacciarono Faruk. E fu proprio lui, Sadat, a dare l'annuncio della rivoluzione vittoriosa alla radio. Lui che aveva mancato l'ora X perché era andato al cinema con la moglie, ignaro del fatto che Nasser l'avesse anticipata. Più volte arrestato dagli inglesi per «connivenza coi tedeschi» (era entrato in verità in contatto con Rommel) e ancora per aver ideato alcuni attentati contro eminenti Pascià, Sadat riuscì sempre a farla franca grazie alla sua baraka. Peccato che un uomo certamente idealista, sia pure a suo modo, e sem'altro buon patriota, si lasci dietro il ricordo di una .purga- sema precedenti, quella attuata fra il 2 e il 3 settembre. Una *purga* che ha colpito integralisti islamici e intellettuali moderati come Heykal, marxisti, e persino i copti nella persona del loro 'Pontefice* Shenuda Terzo. L'uomo che aveva avuto il coraggio, in perfetto stile krusceviano, di smitizzare Nasser rivelandone il gusto dell'arresto facile e della tortura, l'uomo che aveva restituito all'Egitto il bene supremo, la libertà, e ancora dignità e soprattutto la sperama in un futuro migliore, sempre ancorato alla libertà, esce dalla storia lasciandosi dietro un Paese lacerato da mille contraddizioni, stretto di nuovo nella camicia di forza del regime poliziesco. E il gesto ripetitivo dell'espulsione dei russi, ambasciatore in testa, potrebbe alla fine rivelarsi l'ostacolo responsabile di aver stroncato la corsa di quello che sembrava es¬ sere un cavallo di razza. Un cavallo di razza che tuttavia negli ultimi tempi sembrava aver perso il controllo dei nervi, fino ad espellere un giornalista straniero colpevole di aver scritto, tutto sommato, la verità, che in Egitto, cioè, delusione e malcontento, critiche e manifestazioni giovanili contro la «pace monca* erano all'ordine del giorno. «Il regime non è in pericolo», dichiarò dopo la .purga* il Raiss. E per confortare col voto popolare il .nuovo corso* della sua politica decise un referendum. Ovviamente ebbe il 99,45per cento dei -sì*. Tra i tanti che avranno deposto nell'urna il «si» ci saranno stati sem'altro i soldati che affilavano le armi, gli uomini che avrebbero spento la tumultuosa vita di Anwar el-Sadat, premio Nobel per la pace, ostinato contadino innamorato del suo Paese povero e nobile, prigioniero del sogno di recuperare alla madrepatrie' l'ultimo territorio occupato: un lembo di deserto. Igor Man Washington. Sadat, Carter e Begin subito dopo aver firmato alla Casa Bianca gli accordi per la pace fra Egitto ed Israele (Tel. United Press International)