Teatro, questo dio esigente

Teatro, questo dio esigente RILEGGENDO COPEAU, MAESTRO DEL PALCOSCENICO Teatro, questo dio esigente Sto rileggendo qualche pagina di Copeau, i suoi Appels, i suoi Registres. Ci sono dentro cose folgoranti, soprattutto considerando quando sono state scritte. In genere le sue parole suonano più sconvolgenti ed esatte quanto più sono lontane nel tempo. Gli scritti e le idee del 1912-17-19 fino al 1935-36 mi pare che valgano, intatti, anche in questo momento. Gli scritti più tardivi invece girano un po' su se stessi, anche se costellati di intuizioni straordinarie, come straordinario e direi irrepetibile «uomo di lettere e teatro» fu Jacques Copeau che io sfiorai appena di persona ma di cui mi considero, in qualche modo, allievo indiretto. Sembra che dopo il 1940 la «complessità» degli avvenimenti, la stanchezza anche, la ripetitività degli argomenti e delle ragioni che sono sempre state caparbiamente le stesse, tolga qualcosa alla freschezza delle annotazioni; che qua e là spunti quasi una «manìa», anche se io sono ben lontano dal pensare a Copeau come ad un «maniaco della purezza». E c'è sempre quel suo tono predicatorio, severo che riallaccia il passato a tempo più recente. Dopo il 1940 — mi pare — il suono non è più limpido. Manca la prospettiva storica, manca l'idea non del teatro ma della vita, della storia. All'uscita da una guerra sanguinosa e distruttrice con «la Francia calpestata», Copeau davanti al vecchio ed «onesto» Pétain, davanti ad un certo programma di austerità, di umiliazione nella dignità, anche di povertà, mentre il mondo stava ancora capovolgendosi, in una ecatombe di esseri umani ed ideologie, parla dal suo angolo di provincia della purezza, del teatro popolare che deve girare per le piccole città della Francia. Arriva persino a dire «Hanno /agitato la Francia in due? Bene così hanno tagliato fuori Parigi!». La sua idea, da sempre, di Parigi-Babilonia di fronte a Vichy - casa di campagna, familiare e pura. Ma questo è tutto ciò che si può rimproverare al Copeau di allora. Non già, come alcuni giovinastri non sempre sprovveduti ma fatti ciechi dalle letture del Libretto Rosso di Mao o dai diari del Che sono arrivati a dire, si trattava di un impegno «petainista» di Copeau. Semplicemente una incapacità di vedere la storia vera, quella che gli si andava svolgendo intorno. Una specie di distacco volontario, una specie di sogno impossibile dal punto di vista politico ma quasi acquietante per chi, come lui, per tutta la vita, aveva cercato di essere «fuori» in un certo modo, dal mondo, per contestarlo. Copeau volle da sempre contestare il teatro (i contestatori per professione avrebbero dovuto almeno conoscerlo) sapendo perfettamente che l'unico modo di contestarlo era con il teatro, cioè standoci dentro. E qui, secondo me, è tutta la vera tragedia non solo di Copeau, ma di tanti di noi teatranti venuti dopo di lui. Jacques Copeau visse questa tragedia «carnalmente» facendo teatro e teatro e teatro per anni e poi, una sera, di colpo l'abbandonò, senza spiegazioni, partendo in una notte di pioggia (per lui dovette essere una specie di diluvio universale!) con le Regole di San Benedetto sulle ginocchia, verso Peritami Vergelesse, verso «la casa di campagna» per ricominciare là a «fare una scuola» e con la «gioventù pura». Che poi pura non era perché era fatta di esseri umani come tutti gli altri, non monaci o santi, ma ragazzi pieni di voglia di vivere e tra questi Louis Jouvet. I motivi di Copeau, certo, furono sempre profondi ed avvolti in un'aura di tragedia. Noi stessi ce ne facemmo per anni un problema. Parlavamo della «fuga di Copeau» come di un mistero ed ognuno aveva la sua teoria. Solo Orazio (Costa) con l'occhio allucinato e l'erre più che mai arrotato, diceva di «sapere», lui allievo diretto di Copeau, il «vero perché». Un perché che gli era stato confidato, molto segretamente, da «qualcuno» come se fosse stato in confessione, quasi un sacramento mancato. Dunque — pare — aveva confidato Copeau che ad un certo momento egli si era accorto di chiedere a se stesso e agli altri (gli attori) «quello che solo Dio può chiedere agi; uomini». Ed era fuggito. Lui, cattolico francese, di quei cattolici duri, giansenisti, sempre alle soglie dell'eresia, quei cattolici che noi italiani cattolici da compromesso anche storico, nemmeno immaginiamo esserci e se ci sono li chiamiamo appunto giansenisti, luterani, calvinisti, cioè non più cattolici, lui di fronte a questo baratro non poteva non ritirarsi. E mi viene qui alla mente quella stupenda storia di Bernanos morente — vera o falsa che sia — che, all'ultimo momento, dal letto tende verso l'alto il pugno chiuso in uno sforzo supremo e digrigna, disperato e felice, al suo Dio invisibile sopra di lui: «Et maintenant, à nous deuxl». E muore. ★ * In realtà, si trattò per Copeau di qualcosa del genere ma c'era altro in questo «rifiuto», qualcosa di specificatamente teatrale. Chiunque abbia vissuto, non dieci anni di palcoscenico come Copeau ma trenta e più come me, si rende conto a che cosa Copeau si oppose con il suo sacrificio apparentemente inesplicabile. Io stesso, quasi ogni giorno, mi domando se «ho servito» degnamente il teatro a cui mi sono votato. E votato lo dice anche Copeau, sempre: «Diffidate da coloro che non si votano al teatro». In un teatro infame, in mezzo alla inevitabile volgarità che il mestiere del teatro porta sempre con sé, Copeau dice: «In quel tempo mi stavo autodistruggendo, distruggevo le mie facoltà più nobili nel fuoco del lavoro quotidiano. Mi ripetevo. Mi copiavo. Mi chiamavano maestro quando io sapevo di essere solo un allievo ignorante che cerca qualcosa. Ero ormai lontano da tutti, non sapevo più di essere amato, non amavo più Cerasolo questa ferita dentro, continua, questa macchia... ». E più avanti: «Per servire degnamente il teatro, bisogna uscire dal teatro. Oggi il teatro non si trova più nei teatri. Ma fuori. Il teatro è altrove». Queste parole mi mettono di nuovo un terrore postumo e riaprono una domanda alla quale non ho mai trovato risposta: restando fedeli al teatro, dentro, facendolo, nonostante tutto, in purità di cuore, con lealtà, con il dono di tutto se stesso, non si può ugualmente tradirlo? Si può forse tradire il teatro semplicemente continuando a frequentare il suo tempio contaminato con l'illusione sempre più spenta di riconsacrarlo in qualche modo di nuovo. Gli anatemi di Copeau bruciano ancora. Poi, sfogliando il libro, c'è un'altra affermazione di Copeau: «Il teatro di domani sarà o cattolico o marxista. O non sarà». Convegno Volta, 1937 — credo — a Roma. Nell'Italia fascista a quel Convegno, c'erano tutti da Pirandello a Tairof a rappresentare l'Unione Sovietica! Poco dopo il grande maestro russo, insieme a Majerhold sparirà nell'orrore dello stalinismo. Copeau aveva profondamente radicato questo sentimento dell'unitarietà del teatro che si rivolge ad una «società unitaria». E per anni, molti di noi hanno creduto a questa ricerca dell'unità «sociale» e quindi anche teatrale. Occorreva, a me, la parola di un altro maestro, Brecht, il dogmatico Brecht che tutto fu fuorché dogmatico, per distruggermi questa immagine, in fondo pacificante, della storia del teatro quando mi disse: «Un vero teatro non deve unire ma dividere la gente». Lo diceva — e mi costò fatica capirlo, capire che aveva ragione — dopo la lotta quotidiana contro un «socialismo reale» che si stava sclerotizzando intorno sempre più, ma sempre restando «dalla parte del socialismo», della dialettica. Teatro dialettico il suo al posto di teatro unitario. Ecco il passaggio da Copeau ieri a Brecht ancora oggi. Pure anche qui qualcosa del sogno «armonico» del vecchio Copeau, resta e resiste. Ogni volta che una platea, in qualsiasi teatro del mondo, alla fine di uno spettacolo, rompe il suo silenzio e scatta in un applauso concorde e le luci si accendono e palcoscenico e platea si uniscono e si rispecchiano e gli attori si inchinano affaticati e lieti in un rituale antico come antico è il teatro e gli uomini che fanno teatro e quelli che lo hanno ascoltato si «guardano negli occhi», là si verifica anche se per un attimo soltanto, l'unità del teatro e dell'uomo. E restano per esempio, tra tante pagine, anche queste righe, scritte nel 1913: «A voi, mi rivolgo, giovani e vi dico che voi nulla farete di importante se non darete la vita per quello che fate. Il teatro è pieno di seduzioni fittizie. Su pochi esercita la sua seduzione profonda. Il teatro "nuovo" con i suoi freschi colori dell 'adolescenza attira troppo il mondo. Non crediate però che basti essere innocenti, o privi di una qualsiasi concezione professionale per fare qualcosa di bello e nuovo nel teatro, in un mondo in cui, oggi, non possedendo il talento dell'attore, troppi hanno la pretesa d'insegnare agli altri ciò che essi stessi non sono capaci di praticare. Attenti, perché se il teatro è un gioco è il gioco più difficile e pericoloso che possa esistere. Nsl teatro ci si gioca l'anima. E questo — credetemi — non è un gioco. Non c 'è mestiere più completo, più esaltante, più bello del teatro se esso è ben esercitato. Ma nello stesso tempo non c'è mestiere più degradante del teatro quando è fatto male». Alla fine di questo Libro I dei Registres di Jacques Copeau ritrovo poi la piccola dedica che la figlia, Marie-Hélène Dasté mi ha scritto: «A Giorgio Strehler questi "Appels" che egli sente da tanto tempo perchè non dimentichi mai il vecchio "patron"». * * La cara Maiène stia tranquilla. Il grande maestro di teatro ma ancor più di una morale del teatro è qui accanto a me, vivo, difficile, severo ed operante come quando nel 1915 (badiamo, nel 1915) ci scriveva: «lo non cammino col tempo. Per pigrizia e per saggezza. Per previsione e per economia. Poiché prevedo con sufficiente chiarezza i punti di arrivo, non posso dare troppa importanza alle strade di passaggio. Così ho l'aria di essere "in ritardo" o di "stare fermo". Ma è solo perchè sono "più avanti " di tanti altri. E le avanguardie mi ritroveranno sulla loro strada proprio là, nel punto in cui si fermeranno le loro esperienze, quelle che io non ho seguito perchè le avevo già fatte, dentro di me. E da solo, lo aspetto che tutti questi ragazzi abbiano finalmente finito di giocare». Giorgio Strehler Jacques Copeau sul palcoscenico in una recita degli Anni Venti

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