Addio alle armi di Bernardo Valli
Addio alle armi Addio alle armi L'isola di Quemoy, «avanposto della Cina libera» a due chilometri dal continente, ospita ancora 80.000 soldati nazionalisti, sepolti nei bunker in cemento armato. Ma ormai da anni non è più sottoposta ai rituali, tiri d'artiglieria dell'esercito popolare. E' cessata persino tra le due sponde la guerra degli altoparlanti che per tre decenni hanno alimentato un robusto scambio di insulti. Continua soltanto il lancio, sempre più fiacco, di materiale propagandistico (libri, giornali, indumenti) con aerostati sospinti dal vento verso la provincia comunista del Fukien. E' da tempo che gli eredi di Ciang Kai-shek non contano più su una «riconquista del continente» con le armi. I capi del Kuomintang (il partito nazionalista sconfitto nel '49) aspettano che i cinesi del continente si rivoltino contro il regime comunista «come è accaduto a Budapest e a Praga». Nell'attesa, che si annuncia lunga, respingono con una tenacia sempre più diplomatica le prò- poste concilianti formulate da Pechino. Nella primavera del '79 hanno accettato (o tollerato) contatti telefonici tra Pechino e Taipei. Ed è stato un avvenimento di rilievo, anche se puramente simbolico poiché non ha avuto sviluppi. Nel maggio scorso il presidente di Taiwan, ossia Ciang Cing-kuo, figlio del defunto generale Ciang Kai-shek, non ha risposto all'invito ad assistere, a Pechino, ai funerali della vedova di Sun Yat-sen, fondatore della prima repubblica cinese, considerato un eroe nazionale dal partito comunista e dal Kuomintang. Lo spettacolare rilancio della politica di riconciliazione tentato da Pechino nelle ultime ore contiene alcune importanti novità che questa volta tuttavia potrebbero far riflettere più a lungo i dirigenti di Taiwan, anche se alla fine si trincereranno dietro un altro rifiuto. Anzitutto appare allettante la disponibilità a negoziati globali e la promessa di far partecipare alla gestione dello Stato personalità rappresentative del Kuomintang. Non è inoltre trascurabile l'offerta agli uomini d'affari della piccola Cina nazionalista (16 milioni di abitanti) di investire e operare liberamente nella grande Cina | comunista (900 milioni di abi i tanti). Taiwan è una insignifi 1 caute provincia insulare rispet | to al continente, ma sul piano commerciale è la ventesima «potenza» del mondo e una delle prime in Asia. Esporta il 60 per cento del prodotto nazionale e nel '90 la sua industria sarà una delle più sofisticate, grazie al grande sviluppo dell'informatica. Dietro la proposta di Pechino non c'è unicamente il pragmatismo che guida i dirigenti della Repubblica popolare postmaoista. I gesti distensivi in direzione di Taiwan ten tono anche a rassicurare gli Stati i Uniti, che con l'avvento di Reagan alla Casa Bianca hanno rivolto di nuovo la loro attenzione all'isola nazionalista, dopo il trasferimento del loro ambasciatore da Taipei a Pe¬ chino nel '79. La vagheggiata vendita di aerei da caccia FX all'esercito del Kuomintang ha suscitato nei mesi scorsi l'irritata reazione di Pechino. Con la proposta lanciata solennemente nelle ultime ore i dirigenti comunisti ribadiscono le loro intenzioni pacifiche verso l'«altra Cina», ed è sottinteso che questo atteggiamento non bellicoso, solennemente conciliatorio, dovrebbe rendere superfluo l'invio d'armi a Taiwan. Pechino conta addirittura sui buoni uffici di Washington per convincere i capi del Kuomintang a non respingere la mano tesa del continente. E' un'offensiva diplomatica che per i nazionalisti si rivela più insidiosa dei tiri d'artiglieria, poiché col tempo potrebbe allentare ancor più il rifiuto su cui per trent'anni hanno costruito la loro forza. Bernardo Valli
Persone citate: Ciang Cing-kuo, Ciang Kai-shek, Reagan, Sun Yat-sen
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