C'era una volta un padre-bambino di Stefano Reggiani

C'era una volta un padre-bambino In concorso «Piso pisello» di Del Monte C'era una volta un padre-bambino DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA — C'era una volta un bambino che divenne padre. Non è male come inizio di favola. Cent'anni fa Collodi aveva rotto la convenzione dei re per inventare un protagonista burattino che era il contrario del potere, troppo libero per essere umano. Adesso il regista Peter Del Monte, con la collaborazione dello sceneggiatore Bernardino Zapponi, inventa un uomo piccolo, troppo sincero per non essere un bambino. Piso Pisello, presentato in concorso alla mostra, è deliberatamente una favola per mostrare la debolezza e la fragilità degli adulti in quella specie di palazzo che si chiama città. Se il mondo sarà salvato dai bambini, tanto vale che i bambini si riproducano autonomamente. E' solo un'ipotesi benevola, si capisce, perché il film si incarica di suggerire che per gli uomini piccoli, sia pur liberi, resta sempre il bisogno della mamma, cioè dell'amore. Il Piso del titolo filastrocca è un tredicenne milanese, Oliviero, che una sera trova nel suo letto una bellissima grandona, un'americana capitata in casa dei suoi genitori ex sessantottini in cerca di realizzazione. Dorme con quel monumento (una fata?) e la mattina trova solo un bigliettino di saluti. Ma dopo nove mesi è nato un bel bambino. La fata gli porta il neonato Cristiano in visita, i genitori di Oliviero rimangono perplessi, non si credevano permissivi a quel punto. Trascorrono due anni e Cristiano Pisello ritorna dal suo papà, come un pacco abbandonato, è passata la sorpresa, i due sì arrangino. La fuga del quindicenne assai bambinesco col figlio duenne da casa è un tentativo per trovare un'altra casa e magari la fata madre. Troveranno il modo di sistemare in un luna park il nonno sessantottino, finora mantenuto dal bisnonno dentista, ma capiranno che non si può sempre fuggire neppure nelle favole. Il regista Del Monte (Irene Irene, L'altra donna) ha diretto con garbo e sensibilità, ma era molto difficile, dopo la bella trovata iniziale, riempire la fiaba con le macchiette e le metafore di una Milano moderna e stralunata. Gli incontri dei due bambini qualche volta sono azzeccati, altre volte colmano provvisoriamente un vuoto della storia. E' simpatico l'orco Mazzarella, di mestiere palo della mala, è abbastanza insopportabile il matto Leopoldo Trieste che parla con gli animali. Ma sono indovinati i genitori Valeria D'Obici e Alessandro Haber, è gentilmente in ruolo il bambino-ragazzo Luca Porro. Un buon vento di realismo (una volta si sarebbe detto di impegno) viene dal Brasile col film in concorso di Leon Hirszman Non portano lo smoking («Else nao usam black tie»). Storia di due famiglie proletarie nella San Paolo dei nostri giorni, storia del Brasile che nonostante tutto si sta muovendo verso nuove forme politiche, verso la riorganizzazione del sindacato. Dice Hirszman: .E' il problema della democrazia che mi interessa». Che oggi se ne parli non è solo il segno di un compromesso politico. In una San Paolo percorsa dalla violenza criminale e dalla repressione poliziesca (farà lo stesso effetto la rappresentazione dell'Italia all'estero?) si scontrano tra i lavoratori, e magari dentro le famiglie, due concezioni dei propri diritti e delle proprie speranze. Il papà Ottavio è un vecchio sindacalista che ha fatto i suoi anni di prigione, l'unica fede è l'unità della classe operaia; il figlio Tiao è un individualista che spera nei benefici necessariamente divisi della società dei consumi. Dice il padre: «Sei cresciuto nella dittatura». Dice il figlio: .Lo sciopero è un diritto, usarlo o no è affar mio». Dice il padre: .Non sei solo un crumiro, ma un crumiro convinto». E' naturale che durante uno sciopero represso sanguinosamente padre e figlio si separino, ognuno per la sua strada; ma è significativo che il film risulti un ideale monumento al personaggio del sindacalista Braulio ucciso dai provocatori perché simbolo della mediazione, della non violenza, della contrattualità. Hirszman ci ha messo di suo l'esperienza analitica e sociologica, un racconto dimesso che si carica di emozioni per piccoli scarti, per mobili aggiunte fino all'apoteosi sindacale che chiude e «apre» l'opera. Altra aria della Francia. Noi troviamo di solito dete- stabili certi film poetici e onirici, come quello presentato in concorso da Catherine Binet, / giochi della contessa Dolingen di Grate, ma riconosciamo volentieri che fanno parte di una solida tradizione culturale. Si tratta di tre storie (già intraviste a Cannes) che si intrecciano tra loro e sono dominate, si fa per dire, dalla figura della contessa Dolingen, personaggio tratto dal romanzo di Dracula. Forse era meglio per la Binet puntare tutto su un solo racconto, preso dalla «cupa primavera» di Unica Zurn, l'amore di una dodicenne per un adulto, uno straniero misterioso e taciturno. Qui le emozioni infantili e femminili sono espresse con la pungente autorevolezza e vibrazione che solo una donna è legittimata a rappresentare. Ma del resto è meglio tacere, frantumi di film visti e di frasi sospese, legate dalle illustrazioni di «Ventimila leghe sotto i mari». La Binet fa i suoi giochi, come la contessa, ma possibile che la Francia non po-. tesse dare altro? E' probabile, anzi certo, che non abbia voluto; la polemica con la Mostra di Venezia si esprìme anche in questi dispetti. (Ed è una polemica che non serve a nessuno). Resterebbe da parlare, tra i film laterali, di Ivan Passer, regista cecoslovacco di valore immigrato in America e del suo Alla maniera di Cutter. Un reduce dal Vietnam coinvolge in una vendetta simbolica i ricchi ipocriti di Santa Barbara, in California. Metafora aggressiva o confusione suggestiva? Magari bisognerà pensarci su. perché una prima edizione del film ha avuto clamoroso insuccesso in America, e si sa che gli insuccessi nascondono qualche difetto vitale, una qualità che è giusto cercare oltre gli intoppi espressivi. Stefano Reggiani Il piccolo protagonista Luca Porro in una scena del film