Mai di venerdì di Ugo Salvatore

Mai di venerdì RACCONTO PER L'ESTATE Mai di venerdì SONO ancora molti a credere nella iattura in questo ultimo scorcio di secolo cosi denso di segni premonitori del futuro? Si stenta a crederlo, eppure 1 risultati di una indagine d'opinione ci restituiscono un'umanità irragionevolmente attratta da tetraggini esistenziali. C'è ancora oggi chi non parte «né di Venere né di Marte», chi si priva delle Ubere gioie il lunedi, chi evita di fare acquisti voluttuari il giovedì, chi rifiuta di assidersi a un desco con diciassette coperti, fosse pure la domenica. Io appartengo alla schiera più eletta: non tocco ferro. Per il battesimo dell'aria, scelsi casualmente il venerdì di un anno ormai remoto. Doveva essere una gita d'evasione a Parigi in compagnia di Carlo Cavicchioli, un amico che divideva con me il gusto giovanile delle emozioni proibite. Infatti, due ragazze parigine ci avrebbero attesi all'aeroporto di Orly. Era d'estate, un luglio pieno di sole. Mi trovavo già in vacanza in un paesetto di montagna ad una ventina di chilometri da Cassino. Carlo invece era a Torino, ancora invischiato nel suo lavoro. Ci saremmo incontrati a Roma Termini, io risalendo da Sud e lui calando da Nord. Ma per arrivare puntuale all'appuntamento, io avrei dovuto saltare sul treno pendolare antelucano delle 5. Per quell'ora però non avrei trovato un mezzo pubblico che avrebbe potuto portarmi alla stazione. Si offerse di accompagnarmi un muratore: ogni mattina egli scendeva a Cassino con la sua motocicletta, di cui era non segretamente innamorato. La sera s'attardava con lei per lustrarla, sicché anche le parti arrugginite finivano per risplendere al primo chiarore dell'alba. Non volli sottrarmi alla cortesia del muratore. VENERDÌ', ore 4: l'umidita serpeggiava nei pascoli alti della collina. Era facile prevedere che quella sarebbe stata una giornata afosa. Il muratore attendeva già in piazza. Quando mi scorse di lontano, fece un cenno di saluto con la mano. Cavalcai il sedile posteriore appiccicando la valigia alla schiena del mio compagno di viaggio. Lui, senza voltarsi, borbottò: «Che giorno è oggi?». Risposi: «Venerdì 17». Toccò il manubrio dove l'acciaio era più lucente e la moto si mosse schioppettando sulla strada a tornanti che porta a Cassino. Avrei desiderato che filasse più velocemente per non arrivare in ritardo al treno. ma soprattutto per sfuggire alla calura che stava già sprofondando fino alle radici degù alberi. Invece, per quattro chilometri l'andatura fu monotona, soporifera, in un deserto sterminato. VENERDÌ', ore 4,10: stavamo per abbandonare il tratto pianeggiante. Dal casolare che intravedevo molto più avanti sarebbe cominciata la discesa. In quel punto avvistammo un altro motociclista che arrancava, assonnato pure lui, in senso contrario. Chissà perché la sua presenza mi colpi sgradevolmente; fatto sta che. come attratto da una forza magnetica, quel centauro addormentato si distolse dalla retta via per puntare su di noi in perfetta diagonale. Invano il mio pilota tentò di schivarlo, accostando verso il ciglio della strada. L'urto fu inevitabile e tuttavia morbido, tanto che non riuscì a disarcionarmi. La nostra moto si inclinò come una corazzata che affonda nell'oceano con l'intero equipaggio. Tranne il capitano. Infatti il guidatore, divaricando prontamente le gambe, si era sottratto alla caduta. Io mi trovavo ancora a bordo, trattenendo con una mano la valigia e tentando con l'altra di attutire l'impatto con il terreno accidentato. Cosi la ghiaia martoriò le mie dita, penetrando fino all'osso di ogni nocca. Poi vidi una vampata di rosso a il sangue che affiorava. VENERDÌ', ore 4,20: cavalcavo ancora il sedile posteriore della motocicletta ma coricato sul selciato e il mondo pareva che girasse alla rovescia. Notai una donna che si stava avvicinando a passi rapidi e il suo ventre che balzellonava ritmicamente con il seno. Si arrestò accanto a me reggendo tra le mani cotte dal sole una boccetta d'alcol e un rettangolo di lino bianco. Versò l'alcol sulle mie ferite e mi bendò dito per dito, sfilacciando con i denti quel telo che odorava di bucato. «E' venerdì, figlio mio. venerdì 17» borbottò, mentre i due motociclisti si erano affacciati alle soglie della rissa. VENERDÌ', ore 4,40: la moto era uscita indenne dall'incidente. Avevamo ripreso il viaggio verso Cassino. L'afa era opprimente o forse sentivo la febbre che mi cresceva dentro? VENERDÌ', ore 4,40: arrivammo alla stazione. Il muratore mi salutò con un abbraccio, come se fossi scampato a una sciagura. 10 lo ringraziai: «Cosi—aggiunge—domani sei a Parigi!». «Oggi stesso — risposi — venerdì 17». Mi rivolse un pallido sorriso, toccò 11 manubrio nella parte d'acciaio dove più riluceva e se ne andò, schioppettando, senza voltarsi. VENERDÌ', ore 5,03: viaggiavo sul treno pendolare diretto a Roma. Attraverso il finestrino riuscivo a scorgere le propaggini di Montecassino e il monastero lassù, risorto dalle macerie dopo la guerra. Lo scompartimento era al completo: impiegati, operai, studenti. Conversavano con la rassegnata affabilità di chi è costretto a spartire lo stesso destino quotidiano. Ma i loro sguardi non si incrociavano. Erano costantemente rivolti alla mia mano rabberciata e a quelle bende rozze, butterate di sangue nerastro. VENERDÌ', ore 5,30: un usciere del ministero delle Finanze si decise e ruppe il ghiaccio: «Ma chi è quel cane che le ha bendato la mano in questo modo? Che cosa le è accaduto?». Raccontai la mia disavventura: «Un conoscente si è offerto di accompagnarmi a Cassino con la motocicletta, quando...». VENERDÌ', ore 5,45: impiegati, operai, uscieri, studenti erano il mio rapito uditorio. Qualcuno dal fondo incalzò: «Ma qui sul treno c'è la cassetta del pronto soccorso, .chiamate il controllore!». Passarono parola. Mi sentivo, mio malgrado, al centro della più corale gara di solidarietà. VENERDÌ', ore 6: dal corridoio si udivano frasi concitate, Invocazioni, poi ad un tratto apparve il capotreno: «Che è successo? Dov'è il ferito... ma dove si è ferito?». Raccontai la mia disavventura: «Un conoscente si è offerto di accompagnarmi a Cassino con la motocicletta quando Al termine, il capotreno aveva già allargato le braccia sconsolato: «Ma allora l'incidente è accaduto oltre la cinta ferroviaria. Mi spiace: non posso aprire la cassetta del pronto soccorso. Il regolamento prescrive che può essere aperta a beneficio di chi si ferisce entro la cinta ferroviaria. Comprende?». VENERDÌ', ore 6,40: dal vagone di coda fino alla locomotiva, i passeggeri avevano scordato gli affanni familiari, le preoccupazioni del lavoro, le ansie occupazionali dei giovani alla fine degli studi. Ora la loro angoscia nasceva dalla mia mano che avrebbe potuto infettarsi, macerarsi con la cancrena, dissolversi, amputata in una sala operatoria. Sui volti dei miei compagni di viaggio scoprivo la rabbia e l'impotenza di fronte al destino che di minuto in minuto stava divenendo per me sempre più tragico. Quella gente imprecava contro il governo che dimostrava comprensione soltanto per i feriti entro il demanio ferroviario; inveiva contro lo Stato e contro i partiti la cui lungimiranza non si proiettava oltre quella cinta. Prima di estraniarmi dal putiferio , udii ancora una voce dal fondo: «In quelle condizioni uno potrebbe anche morire di setticemia. Oggi è giornata di marca: venerdì 17! ». Dovettero udirlo in tanti, perché da quel momento calò il silenzio. VENERDÌ', ore 7,10: il treno si fermò stridendo sul binario 18 di Roma Termini. Carlo Cavicchioli era arrivato da Torino ed era pronto ad accogliermi dalla banchina. Mi scorse e prima ancora di salutarmi domandò sorpreso: «Ma che cosa t'è successo alla mano?». Raccontai la mia disavventura: «Un conoscente si è offerto di accompagnarmi a Cassino con la motocicletta, quando...». Dovetti ripetere questa storia parecchie volte durante il nostro viaggio di evasione: al pronto soccorso della Croce Rossa alla Stazione Termini, dove rimisero decentemente in fasce le mie dita. La ripetei in inglese alla hostess dell'aereo Pan Am; in francese alle ragazze che ci attendevano a Orly, ancora nella lingua di Cambronne al farmacista che mi rifornì di bende di ricambio, all'albergatore nel Quartiere Latino e poi la sera nuovamente a Carlo Cavicchioli, nel delirio della febbre che mi era salita a 40°. Gliela raccontai in modo che dovette commuoverlo, perché mi disse: «Domattina torniamo in Italia. Sono certo che ti passera». Chi ne dubitava? L'indomani sarebbe stato sabato, sabato 18. Ugo Salvatore

Persone citate: Carlo Cavicchioli